Don Lorenzo Milani, il borghese che sfrattò il Crocifisso dalle aule

I santi usavano il metro ecclesiale e del Vangelo per misurare i problemi sociali e culturali del proprio tempo e per affrontarli; don Milani invece usava il metro dell’ideologia borghese, quel metro a lui così famigliare perché dalla classe borghese proveniva. Spiega così padre Tito Centi: “Il metro col quale egli misurava i valori della vita era quello della borghesia: la cultura, il successo personale, la fiducia in se stessi, la capacità di reggere il confronto con le opinioni e la dialettica altrui, la perfetta autonomia e autosufficienza. Questi, i beni supremi…”.
Ancora non è scoppiato il post-Concilio. Ancora non c’è neppure il Concilio, non è finito almeno. Eppure sembra esplodere, ancora vivente, il mito di don Milani, sino a diventare un’icona del movimento studentesco del ’68, benché fosse già morto. Questo è il prete che vuole “formare coscienze” alfabetizzando i fedeli, proponendo le letture e i commenti collettivi dei giornali. Sembra il primo a dichiarare l’insufficienza del Vangelo. I suoi peccati sembrano ancora solo peccati contro la comunità, peccati politici, non ancora dottrinali. Sembra tutto buona volontà. Uomo di buona volontà. Sembra.
Eppure Milani anticipa, in piccolo e in modo edulcorato, l’impazzimento clericale, la contestazione intraecclesiale che seguì il ’68. Egli sembra davvero l’antesignano di tutto ciò. Senza che si togliesse di dosso una sola volta la talare. Dopo, se fosse sopravvissuto, probabilmente l’avrebbe gettata alle ortiche pure lui e si sarebbe dato forse al comunismo, forse al socialismo, magari al radicalismo, pensiamo. Quel che è certo è che don Milani diventa subito un prete popolarissimo, celebratissimo da tutta l’intellighenzia radical, di sinistra, anticlericale, anticattolica. Persino la sorella della Fallaci, Neerea, gli dedica un enorme libro encomiastico, dove, in 800 pagine, non c’è più nulla di cattolico e c’è, invece, molto di “chiesa nuova”, di superamento della “chiesa”; e, da un certo punto in poi, di “superamento” dello stesso cristianesimo. Ma chi è don Milani?

ALLE ORIGINI DEL FENOMENO “DON MILANI”. LA MITOLOGIA DEI “PROFETI INASCOLTATI”

Per capirlo, è utile partire da un punto ben preciso. Prendere coscienza, cioè, del fatto che, sia prima che dopo il Concilio, assistiamo ad una serie di esternazioni di sacerdoti che hanno poi fomentato e fornito gli slogan del dissenso all’insegnamento della Chiesa.
Nel momento in cui san Pio X condannò apertamente il modernismo, non fece altro che portarlo allo scoperto e far emergere, in tal senso, coloro che erano animati da questo spirito falso e bugiardo. E’ da quel momento che cominciano ad affermarsi e a formarsi taluni sacerdoti che, a partire dal pontificato di Pio XII, si metteranno in una situazione ambigua. Cavalcando l’onda del rinnovamento e dei “tempi nuovi” – l’aria di un Concilio imminente – seppero tenersi in un gran gioco di equilibrio che permetteva loro di farsi sopportare dalla Chiesa, senza essere scomunicati come eretici, anche se venivano emarginati per le loro idee moderniste: da questa postazione apparentemente precaria diedero origine al mito dei “profeti inascoltati”.
Si parla di Nouvelle Theologie, di modernismo, di cambiamenti, di rinnovamento dottrinale, di marxismo, ecc.. In poche parole, parliamo del tarlo dell’eresia (che letteralmente significa “pensare diversamente”), tanto antico quanto nuovo, che ha sempre messo a dura prova la pazienza della Chiesa, ma anche richiamato la sua materna attenzione a non gettare via tutto, trattenendo ciò che è buono (cfr 1Tess.5,21); i nomi pure sono oramai noti, così come è nota la patetica difesa dei loro discepoli: preti incompresi, profeti inascoltati, sacerdoti umiliati (dalla Chiesa), e via dicendo!
Come abbiamo specificato nell’articolo dedicato a Padre Turoldo, è importante che anche questo scritto non si focalizzi esclusivamente sui difetti, sulle idee errate di questi sacerdoti e magari sul giudizio relativo alle loro persone. E’ importante, invece, che, salvaguardando la loro fede personale e la loro vita sacerdotale, ci dedichiamo esclusivamente alla Dottrina della Chiesa e, in base a questa, valutiamo ciò che venne di buono dal loro operato e ciò che, invece, bene non fu e che venne dalle loro predicazioni infarcite di modernismo e marxismo. Il lettore attento non mancherà di notare questo nostro modo di procedere.

UNA VECCHIA STORIA: LA CHIESA MATRIGNA E I SACERDOTI “PROFETI” GLI UNICI “BUONI E ALTRUISTI”

Per comprendere meglio le origini della popolarità e del mito di questi sacerdoti, sarebbe interessante andarsi a leggere la prima enciclica della Chiesa sulla questione sociale, la Rerum Novarum di Leone XIII del 1891, e di lì a seguire tutto l’iter dottrinale e pastorale proclamato e abbracciato dalla Chiesa fino ad oggi. Qui non abbiamo lo spazio necessario, ma vi consigliamo di studiare a fondo la dottrina sociale della Chiesa.
E’ importante per capire la sostanziale differenza tra il reale insegnamento magisteriale e le deformazioni che subisce in certe pretese clericali, che diventano “critiche”. Che mai sono avanzate contro le mode sociali del momento, vere responsabili dei danni che l’uomo e le famiglie subiscono, ma sempre “contro” la Chiesa. Come se davvero la colpa di determinate situazioni mondane fosse sua, a prescindere solo “sua”. Tanto è vero che tutta questa schiera di sacerdoti – chi più, chi meno, chi in buona fede e chi meno – simpatizzeranno sempre con il socialismo, con il comunismo. Fino al radicalismo di una pretesa di “rinnovamento della Chiesa” che nelle loro intenzioni doveva essere un “demolire” anche la dottrina, l’etica e la morale cattoliche: in una parola, interpretare in modo “nuovo e moderno” i Dieci Comandamenti. Che poi, come la storia contestataria ha dimostrato, qui pure, si riduce a una “demolizione” degli stessi Comandamenti.
Nasce così il prete operaio, il prete popolare, come se, fino a quel momento, la Chiesa non fosse mai stata operaia e popolare, ma piuttosto una matrigna con la puzza sotto il naso, snob e indelicata verso i poveri, verso gli operai, verso gli oppressi.

DA UNA FAMIGLIA AGIATA E INTELLETTUALE. UN PRETE CHE NESSUNO VUOLE

Il primo parroco di don Milani, don Pugi, dopo ripetute pressioni al suo vescovo per avere un aiuto, si sente rispondere in questo modo dal vicario generale: “Abbiamo tra gli altri sacerdoti novelli anche un tipo che nessuno vuole: una vocazione adulta. Un ragazzo (…) ricuperato da don Bensi, e che già in seminario ha fatto un po’ confondere. Se tu te la senti di prenderlo e di provare!“. Don Pugi replica: “A me va bene in tutti i modi: purché dica Messa e confessi. Per il resto, ci arrangeremo”.
Senza dubbio, alcune circostanze della sua vita pongono don Milani già lontano dalla tradizione dottrinale della Chiesa. E’ pronipote del filologo Domenico Comparetti e di sua moglie Elena Raffalovich, sostenitrice e creatrice di giardini d’infanzia froebeliani; è nato in una famiglia agiata, intellettuale, non cattolica praticante e con tendenze anticlericali; è stato battezzato solo per timore delle ripercussioni fasciste, visto che la madre è ebrea, anche se lontana dalla pratica religiosa. Tutte queste circostanze devono aver giocato un ruolo formativo nella coscienza di Milani. Riguardo alla sua stessa conversione, non ha mai parlato di un evento particolare, di un fatto specifico: si sa solo che il lungo dialogo con don Raffaele Bensi, suo direttore spirituale, lo portò a diventare cattolico praticante e, nello stesso anno, il 1943, ricevette la cresima ed entrò in seminario.
Il giovane don Milani

Nel 1947 divenne sacerdote a Firenze: una conclusione alquanto anomala che sottolinea la responsabilità dei formatori nei seminari dal momento che Milani espresse, fin dal primo anno, insofferenza ed inquietudine per l’obbedienza; malcelata indisposizione verso la gerarchia; critiche al cerimoniale ecclesiastico, molti elementi del quale erano per lui inutili, falsi, e ben lontani dal messaggio del Vangelo.
Altro non si sa, ma appare evidente che un sant’Alfonso M. de Liguori non avrebbe mai approvato un simile candidato senza aver tentato, con ogni mezzo, di fargli comprendere le ragioni di un certo cerimoniale ecclesiastico e l’importanza della liturgia e dell’obbedienza, prime virtù del cattolico, del sacerdote soprattutto. Obbedienza che, per altro, don Milani pretenderà poi dai suoi ragazzi (anche se cercò di non usare mai il termine con loro), senza ricordare che questa sarebbe arrivata spontaneamente se egli per primo ne avesse dato testimonianza. Suo, del resto, il nuovo motto – l’obbedienza non è più una virtù – che analizzeremo più avanti.
Tra questa sfiducia dei superiori e la fiducia del povero parroco bisognoso di aiuto “per dire Messa e confessare” comincia la missione di Don Milani. Come ripeteva Madre Teresa di Calcutta e come ripete Benedetto XVI oggi, si sa che il Signore sa scrivere dritto su “righe storte” e sa portare avanti il Suo progetto anche con strumenti poveri. Don Milani avrebbe dovuto cominciare così, semplicemente confessando e dicendo Messa, ma non gli basterà. Del resto, è anche vero che nel cristianesimo si deve osare, si deve azzardare, si deve progredire ma anche lasciarsi correggere, avanzare con mansuetudine, affidarsi alla Chiesa che è maestra: solitamente, però, si prende per buona solo la prima parte e si omette la seconda.

MANSUETO. MA CRITICA LA CHIESA E TRASCURA O FA RESISTENZA PASSIVA ALLA LITURGIA

Don Milani era mansueto, buono, come la gran parte di questi sacerdoti i quali erano davvero mossi da uno spirito umanitario che potesse soccorrere i più bisognosi, gli emarginati. Ciò che questi sacerdoti non comprendevano, però, è che il nemico non era la dottrina della Chiesa ma il cambiamento della società che andava sempre più secolarizzandosi e, in quegli anni, comunistizzandosi.

Una società in cui la “questione sociale” prendeva il posto dell’autentico messaggio del Vangelo sull’essere operatori di pace. Messaggio che travisarono: trasformando il tutto in un pacifismo ideologico e a tratti, paradossalmente, violento. Un pacifismo in cui la nemica della pace nel mondo e della risoluzione dei problemi dei deboli diventava – in una incredibile rilettura della realtà – la Chiesa con il suo insegnamento.
Don Milani con alcuni allievi.
Secondo questi nuovi “profeti”, sarebbe stato sufficiente che la Chiesa modificasse le sue dottrine e i poveri non sarebbero stati più poveri. Bella utopia.
In un libro assai interessante, Incontri e scontri con Don Lorenzo Milani (che citeremo spesso in questo articolo), che ha tanto di imprimatur sia dell’Ordine Domenicano quanto ecclesiastico, edito nel 1977 e scritto dal domenicano fr. Tito Centi, che conobbe personalmente Milani, si comprende l’origine del problema riguardo a questo sacerdote cappellano che lo condurrà poi ad agire per conto proprio: “Don Milani aveva un gran cuore, una disponibilità quasi illimitata, quando si trattava di aiutare il prossimo. Si occupava volentieri dei ragazzi e dei giovani, per i quali aveva organizzato una specie di scuola serale. S’interessava dei malati, ed era molto sensibile alla benevolenza e all’amicizia”.
“Scarso era, invece, il suo impegno per la vita liturgica della parrocchia, la quale avrebbe avuto bisogno di un buon cappellano per risorgere dal suo stato di languore intollerabile. Per questo aspetto, però, il prevosto, nonostante la sordità galoppante, doveva arrangiarsi da solo: il cappellano non se la sentiva di aggiungere una sola nota agli stonatissimi vespri domenicali, ai canti delle benedizioni o delle processioni”.
Il prete giovane non aveva né voce né voglia di cantare.
“Don Pugi ne tollerava paternamente la resistenza passiva, ben sapendo di non avere i mezzi per vincerla. Apprezzava l’intelligenza e la cultura del suo giovane aiuto, ma non se la sentiva di sposarne le tesi azzardate e pericolose”.

NON È MARXISTA, MA PROPONE DOTTRINE CATTO-COMUNISTE

Don Milani cominciò così a camminare controcorrente (ma sempre in direzione di colà dove lo spirito del mondo soffiava). Una domenica in cui si teneva la Giornata della stampa cattolica, durante l’omelia aveva osato paragonare l’Avvenire d’Italia (giornale all’epoca cattolico) all’Unità. A quel punto Don Pugi non poté tacere e finita la predica disse ai fedeli: “Non date retta a quel che ha detto il cappellano!”. Milani, che era di buona indole, non reagì, sapendo di dover essere riconoscente all’anziano parroco che lo aveva accolto nella sua parrocchia quando nessuno lo voleva.
Comincia la lezione…
Milani non era neppure comunista.
Il punto è che era come padre Turoldo, don Bello, ed altri. Essi non si schieravano affatto nelle file comuniste o socialiste, ma ne sposavano le idee, facendo un bel sincretismo con la dottrina cristiana e dando origine ad una formazione nuova che si ponesse nel mezzo fra la “rigida” – secondo loro – dottrina sociale della Chiesa e le estremizzazioni politiche della sinistra. Pensando, dunque, ad una sorta di centro che potesse andare bene a tutti, il loro desiderio era cambiare la Chiesa e naturalmente cambiare il mondo! Non bastava la DC (e qui non possiamo dare loro torto anche se le motivazioni sono ben diverse): per loro la Democrazia Cristiana era insufficiente ed incapace di dissociarsi dalla guida della Chiesa la quale, secondo un pensiero diffuso tra questi sacerdoti, patteggiava per un proprio tornaconto e non per il bene dei più deboli. Erano necessari, inoltre, preti capaci di uscire dalle sagrestie, capaci di togliersi la casula delle liturgie e scendere in piazza accanto ai “deboli”.
Don Milani contestava alla Chiesa l’irrigidimento contro i comunisti, egli voleva una pastorale ecclesiale più “comprensiva” nei loro confronti. Che, per conto loro, in Italia e soprattutto nei paesi dell’Est non lo erano affatto con i cattolici (e per la verità neppure con tutti gli altri: ormai è storia).

A SENTIRE LUI, LA CHIESA SAREBBE DOVUTA ANDARE MANO NELLA MANO COL COMUNISMO

Qui va aperta una brevissima parentesi di carattere storico: la Chiesa – come ricorda Pio XI (1857-1939) nell’enciclica Divini Redemptoris del 1937 (n. 4) – ha condannato il comunismo già prima che fosse pubblicato, nel 1848, il Manifesto del Partito Comunista. Precisamente lo ha fatto nel 1846 con l’enciclica Qui pluribus del beato Pio IX (1792-1878).
La stessa Divini Redemptoris – pubblicata cinque giorni dopo l’enciclica sul nazional-socialismo Mit brennender Sorge per evitare l’uso propagandistico della condanna dell’avversario da parte di entrambi i regimi – costituisce la più articolata analisi del fenomeno comunista.
La Chiesa, però, non si è certo fermata a questa enciclica: i documenti sono letteralmente centinaia e, fra i più recenti, spiccano l’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede (allora presieduta dal cardinale Joseph Ratzinger) Libertatis nuntius, del 1984, su alcuni aspetti della “teologia della liberazione”, e i riferimenti al fallimento marxista nelle encicliche Deus Caritas est (2005) e Spe salvi (2007), scritte da Benedetto XVI.
Le buone intenzioni non bastano mai.
Tornando a don Milani, egli, fondamentalmente, non contestava la condanna alle idee marxiste, ma la chiusura della Chiesa al dialogo con i comunisti.
E’ vero che la differenza è enorme ed oggi siamo tutti d’accordo sull’efficacia di un certo dialogo; ma è altrettanto vero che Milani condannava “l’apertura prudente” della Chiesa – alla fine del pontificato di Pio XII e poi con Giovanni XXIII, in difesa della dottrina cattolica – per pretendere una “collaborazione” più marcata, nella quale le idee comuniste potessero essere in qualche modo cattolicizzate, approvate, e, per farlo, è ovvio, era la Chiesa a dover cambiare. Milani giustificava la tolleranza che bisognava avere con chi non la pensasse come i cattolici. Così, secondo lui, se la Chiesa avesse modificato le sue dottrine, se le avesse almeno ammorbidite, si sarebbero accorciate le distanze e sarebbe venuta meno la reciproca incomprensione. Storia vecchia, inganno vecchissimo: sappiamo tutti come è andata a finire, ovunque, questa “tolleranza” cattolica, questi “ammorbidimenti” dottrinali, verso i comunisti, che don Milani propugnava. E che più che “tolleranza” erano e si dimostrarono, ove praticati, vera connivenza e collusione. E i cattolici “tolleranti”, ossia collusi col comunismo, finirono molto più a sinistra dei comunisti stessi. E riuscì ciò che ai comunisti non era riuscito: distruggere la chiesa che ricadeva sotto la loro responsabilità, demolendo la fede dei credenti.
Furono quei cattolici “tolleranti” e cioè conniventi, che persino quando il PCI, caduto il Muro, dichiarò il suo fallimento e ammise il suo “errore storico” – ossia il comunismo internazionale che avevano professato fin lì con tutti i suoi crimini – sciogliendosi per la vergogna e trasmutando in PDS; ebbene, anche allora, furono quei “cattolici tolleranti” e collusi come li voleva Milani, che entrati nel PCI si erano fatti più comunisti ortodossi degli stessi comunisti storici, sostituendo una religione (la dogmatica comunista) all’altra (la dogmatica cattolica); quei “cattolici tolleranti” lì, divenuti nel frattempo marxisti intolleranti, furono proprio loro i soli a opporsi allo scioglimento del PCI. E furono molti di questi a proporre, con un anacronismo tutto clericale, una “rifondazione del comunismo”. È storia!

DI MALE IN PEGGIO: L’ANTICLERICALISMO TARGATO “CLERO”. LUI PRENDE LE DISTANZE… FORSE


Tuttavia, non era solo questo il punto più caldo. In quegli anni si generò un crescente e preoccupante anticlericalismo che nasceva spesso per opera degli stessi predicatori, sacerdoti, parroci, i quali, dai loro pulpiti lo fomentavano, attaccando le “ricchezze della Chiesa”, sposando le accuse degli anticlericali (che, successivamente, saranno riprese anche dai contestatori peace&love), i quali denunciavano come tale “sperpero” fosse causato dall’ attenzione per la liturgia, considerata elemento “accessorio e inutile”. Soprattutto perché tale sperpero – secondo loro – avveniva a danno del povero, a cui queste ricchezze avrebbero potuto essere devolute. Tuttavia anche in questo caso don Milani prende le distanze: per lui, “spogliare la Chiesa” non rappresentava la soluzione dei problemi e, quando udiva qualche predicatore parlare così, ai suoi ragazzi, che lo guardavano con fare interrogativo, rispondeva “non dategli retta!”.
Questo non significa che egli non condividesse del tutto questo modo di pensare. Qui sta forse uno dei nodi della questione: questi sacerdoti inquieti fanno intuire pensieri talmente confusi, al fondo, che spesso risultano contraddittori. Peggio: ambivalenti. Così, a volte, questi “profeti secondo il mondo” danno l’impressione di riuscire incomprensibili persino a se stessi.

I SACERDOTI CONTESTATORI: SE C’È UN PROBLEMA, È COLPA DI ROMA. MA PAOLO VI SCOPRE GLI ALTARINI

Milani era convinto che le obiezioni della piazza fossero valide, ma riteneva che non ci si dovesse scagliare contro il clero: piuttosto – tanto per cambiare – occorreva rivolgersi verso Roma, incapace di saper cogliere nel modo giusto quelle rivendicazioni, di non saperle affrontare, di non essere in grado di metterle a tacere opportunamente con iniziative caritatevoli adeguate. Per lui non era sufficiente condannare e basta: bisognava aprirsi al “dialogo” per far comprendere come vivesse la Chiesa e, naturalmente, apportare dei “cambiamenti”.
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