Vigilanza escatologica e ultimi tempi: per non essere impreparati

LA NECESSITA' DELLA VIGILANZA ESCATOLOGICA
Del dott. Guido Vignelli

Il cristiano in attesa escatologica[1] viene spesso preso di mira da quei «beffardi schernitori» che – come aveva profetizzato san Pietro (2Pt. 3, 3 ss.) – soprattutto negli ultimi tempi derideranno il fedele che fa pessimistiche previsioni sulla rovina spirituale del mondo; egli viene sprezzantemente accusato di essere un malato di “apocalitticismo” o di “millenarismo”, un “profeta di sventura”, un fanatico in cerca di forti prospettive consolatorie che pretende di vivere in un’epoca decisiva della storia e s’illude che l’attuale crisi verrà automaticamente risolta da una catastrofe rigeneratrice. A lui viene applicata la nota condanna recentemente pronunciata su coloro che

«non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; (…) a noi sembra di dover risolutamente dissentire da questi profeti di sventura che annunciano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo»[2].

Questa sbrigativa liquidazione della mentalità escatologica viene spesso avanzata in nome della moderazione psicologica e dottrinale o dell’attendibilità storica e scientifica, ma in realtà è una posizione emotiva, superficiale e antiscientifica, perché critica una immagine caricaturale di un problema serio nella comoda prospettiva di eluderlo e in questo modo finisce con l’illudere e tranquillizzare le coscienze giustamente inquiete: costituisce davvero “la voce che addormenta e la mano che spegne”! La corretta metodologia esige invece che una tesi non venga slealmente liquidata riducendola alle sue manifestazioni patologiche, ma venga onestamente esaminata considerandone quelle normali, per poi eventualmente criticare quelle abnormi; infatti,

«le caratteristiche dell’individuo da giudicare si devono pensare “prolungate” fin nella corrispettiva forma morbosa (le malattie dello spirito sono in un certo senso “esagerazioni” di strutture normali) e si deve poi, da questa immagine estremamente marcata, ritornare a considerare quella normale, imparando a comprenderla più profondamente in sé stessa, nella sua natura nascosta ma reale»[3].

Spesso invece si procede proprio al rovescio; ad esempio, il timore di una imminente fine del mondo viene condannato, quando si basa su antiche motivazioni religiose, ma viene approvato quando si basa su moderne spiegazioni economiche o ambientali come quelle avanzate da noti guru neomarxisti o ecologisti, per quanto fasulle siano[4]. Se nei primi secoli della Chiesa si esagerava nell’attendere la fine dei tempi, oggi si tende all’eccesso opposto, perché la dilagante idolatria della vita e della storia spinge a escludere la prospettiva escatologica, alimentando l’illusione che questo nostro mondo e questa nostra epoca siano capaci di una durata indefinita o addirittura di un progresso indefinito. Ancor oggi, nonostante l’aria che tira, alcuni filosofi e teologi pretendono che il rovinoso panorama della nostra società manifesti solo una “crisi di crescita” che finirà col favorire “la grande ondata evolutiva” che ci trasporta verso un radioso futuro[5].

Eppure la fede cristiana pensa e agisce in modo ben più schietto e coraggioso: all’insegna del motto respice finem!, essa è tutta tesa al compimento escatologico, sia a livello individuale che a livello sociale, e la Sacra Scrittura ammonisce i fedeli ad «aspettare ed affrettare la venuta del Giorno di Dio» (2Pt. 3, 12), ossia del Giudizio finale.

A livello individuale, Gesù Cristo stesso ammonisce il fedele di essere sempre sveglio e vigile, per non rischiare di trovarsi impreparato quando Egli verrà a visitarlo senza preavviso. Se non alimenta questa vigilanza escatologica, il cristiano rischia di fare la fine dei “servi sciocchi” o delle “vergini stolte” descritte dalle note parabole evangeliche: non aspettandosi che il Padrone o lo Sposo tornasse per chieder conto del loro operato, quei servi e quelle vergini non furono pronti ad per accoglierlo al suo arrivo; Egli quindi li sorprese nel sonno e li punì per la loro imprudenza (Lc. 12, 35-36).

A livello sociale, la sana teologia insegna che il fedele non può vivere alla giornata disinteressandosi degli avvenimenti, ma deve cogliere il disegno divino nella storia per capire in quale sua fase egli sta vivendo e quale compito gli viene affidato dalla Provvidenza; proprio a questo scopo egli deve cercare di scorgere e interpretare i famosi – e spesso fraintesi – “segni dei tempi” di cui parla il Vangelo (Lc. 12,56). Egli deve sempre mantenersi in vigile attesa del giudizio divino: non solo di quello personale (il “giudizio particolare”) ma anche di quello sociale (il “giudizio universale”); infatti possono accadere eventi storici interpretabili come una sorta di anticipazione e prefigurazione del “giudizio universale”; anzi ne sono già accaduti, come quella distruzione di Gerusalemme e quel crollo dell’impero romano di Occidente che segnarono la fine della cosiddetta “età antica”. Del resto,

«la via che c’introduce all’ultima fase del Regno è tutta segnata da grandiosi avvenimenti e da parziali avventi del Signore»[6].

Se poi vive in tempi critici, il fedele deve essere una sentinella che scruta l’orizzonte del futuro, per vedere se incombe l’avvento dell’Anticristo o di un suo precursore, e deve vivere nella prospettiva della parusìa, ossia nell’attesa del trionfale ritorno del Redentore sulla terra, anche se non può prevederne tempi né modi. Giustamente quindi sant’Agostino sottolinea il legame che unisce il prepararsi al giudizio universale col prepararsi al giudizio particolare:

«Ogni cristiano deve vegliare affinché il ritorno del Signore non lo trovi impreparato, e impreparato sarà trovato dal Signore chiunque sarà impreparato per l’ultimo giorno della propria vita»[7].

Pertanto il Catechismo del Concilio di Trento ammonisce:

«Come dal principio del mondo fu sempre massimamente desiderato da tutti il giorno in cui il Signore avrebbe assunto l’umana carne, e in quel giorno riposero la speranza della liberazione; così (…) oggi noi dobbiamo desiderare ardentemente quel secondo giorno del Signore, aspettando quella beata speranza e l’apparizione della gloria del sommo Dio»[8].

Quest’attesa escatologica presuppone che il cristiano abbia un sensus fidei e un senso della trascendenza capaci di sollevargli l’animo dalla trama delle contingenze e dai meccanismi sociali, facendogli capire che questo mondo terreno, e tantopiù questa società storica, per quanto possano sembrare solidi e stabili, in realtà sono fragili e precari, sono come uno “spettacolo” che può concludersi inaspettatamente e rapidamente: «è passeggero lo scenario di questo mondo!» (1Cor. 7, 31). Questo è ciò che c’insegnano alcuni noti cultori dell’escatologia:

«Il libro dell’Apocalisse porta il cristiano a immergersi nella storia, a leggere la propria storia, il suo segmento nel grande fluire della storia in cui è immerso. Lo dovrà interpretare, dovrà leggere i “segni dei tempi” e trarne poi delle conseguenze operative. L’Apocalisse tende a darci sempre quelle posizioni di fondo che ci rendono protagonisti della storia della Salvezza»[9].

«Nessuna generazione può o deve escludere, come possibilità reale, la prospettiva di vivere la parusìa. (…) Questo fa pensare che il cristiano debba fare qualcosa per affrettare la venuta della parusìa. L’uomo deve prepararsi alla parusìa con una separazione spirituale dal mondo, (…) perché “passa lo scenario di questo mondo”»[10].

«L’escatologismo ci mette in uno stato di perenne attesa, senza angosce di fini imminenti, ma con l’impegno di rendere sé stessi e il proprio tempo il più consoni possibili alla perfezione dell’ultima ora»[11].

«I segni [della Parusìa], attinti e intesi nella fede, insegnano a guardare gli avvenimenti del mondo alla luce del Cristo venturo. Essi scongiurano il pericolo di vivere troppo sicuri e tranquilli nel mondo con la sua cultura, che confida in un progresso perpetuo, e di considerare le catastrofi soltanto come disgrazie passeggere, e di relegare la venuta del Signore ai margini della coscienza, come una possibilità lontana e indeterminata»[12].


«Vi sono cristiani più che soddisfatti e senza la minima inquietudine di fronte alla nostra attuale situazione. Ma la loro soddisfazione non è secondo il volere di Cristo. Essa deriva da un compromesso con il mondo, da un rifiuto di guardarlo in faccia per paura di riconoscervi l’opera del demonio e di doversi ricordare della Croce di Cristo»[13],

ossia del dovere di combattere quel mondo. Questi cristiani imitano gli Apostoli tranquillamente addormentati nel giardino del Gethsemani, incapaci di vegliare col loro Redentore, dunque impreparati ad affrontare i pericoli incombenti:

«La sonnolenza dei discepoli rimane lungo i secoli l’occasone favorevole per il potere del male. Questa sonnolenza è un intorpidimento dell’anima che non si lascia scuotere dal potere del male nel mondo, (…) è una insensibilità che (…) si tranquillizza col pensiero che tutto, in fondo, non è poi tanto grave, per poter così cointinuare nell’autocompiacimento della propria esistenza soddisfatta. Ma questa insensibilità delle anime, questa mancanza di vigilanza (…) conferisce al Maligno un potere nel mondo»[14].

Insomma, quella se la fine dei tempi sia vicina o lontana è una questione seria, che i cristiani sempre si posero e sempre si porranno, a buon diritto, in ogni fase cruciale della storia. Lo fecero numerosi santi e dottori della Chiesa, e nel XX secolo anche alcuni Papi come san Pio X[15] e Pio XI[16]. Inoltre, il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica afferma:

«Il tempo presente (…) inaugura i combattimenti degli ultimi tempi (1Gv. 2, 18); è un tempo di attesa e di vigilanza. (…) Questa venuta escatologica [di Cristo] può compiersi in qualsiasi momento, anche se essa, e la prova finale che la precederà, sono “impedite” (Tes. 2, 3-12). La venuta del Messia glorioso pende su ogni momento della storia»[17].

Pertanto il mantenere viva l’attesa escatologica, ben lungi dall’essere una droga, è anzi «la medicina richiesta dalla nostra particolare condizione»[18], è il balsamo che ci preserva sia dalla presunzione che dalla disperazione. Comunque sia, la questione escatologica resta ineludibile, perché

«l’Apocalisse fa parte della nostra mentalità, di un nostro modo di vedere le cose. Essa è diventata un po’ il simbolo riassuntivo del nostro atteggiamento verso il futuro che ci attende: paura della fine da una parte, attesa di un nuovo inizio dall’altra; inquietudine e speranza»[19].

Note:

[1] Precisiamo una volta per tutte che qui l’aggettivo “escatologico” viene inteso nel senso oggi comune, ossia riguardante la fine dei tempi. Bisogna però notare che, nel suo esatto senso teologico, l’ “escatologia” comprende l’intera storia della Chiesa, per cui i “tempi escatologici” sono quelli messianici, già iniziati con la Redenzione, che verranno solo conclusi dagli eventi profetizzati dall’Apocalisse: come già disse san Paolo, «a noi è toccato di vivere negli ultimi tempi» (1Cor. 10, 11), per cui «tutto il periodo dall’Incarnazione fino alla fine del mondo è “periodo finale”» (M. Schmaus S.J., I Novissimi, Marietti, Torino 1969, p. 107).
[2] Giovanni XXIII, discorso per la solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, dell’11-10-1962, § 3. L’ottimismo di questo famoso discorso è stato duramente smentito dalla storia immediatamente successiva, il che ci permette oggi di riabilitare quei “profeti di sventura” che cinquant’anni fa furono derisi, criticati e perseguitati… come spesso càpita ai veri profeti!
[3] J. Pieper, Sulla fine del tempo, Morcelliana, Brescia 1959, p. 48.
[4] Cfr. ad es. M. Lee, Earth First! Environment apocalypse, Syracuse (USA) 1995.
[5] Così sostiene la presentazione della copertina del libro di M. Guzzi, Dalla fine all’inizio. Saggi apocalittici, Edizioni Paoline, Milano 2011.
[6] M. Cordovani O.P., Il Regno di Dio, Studium, Roma 1944, p. 207.
[7] S. Agostino d’Ippona, Epistola 199 (ad Hesychium), § 3.
[8] Catechismo del Comcilio di Trento, § 88.
[9] U. Vanni S.J., Intervista sull’Apocalisse, Ed. Dehoniane, Bologna 2009.
[10] C. Pozo S.J., Teologia dell’aldilà, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1994, pp. 119-120.
[11] Ilarino da Milano O.F.M., L’incentivo escatologico nel riformismo dell’ordine francescano, in Centro di Studi sulla Spiritualità Medioevale, L’attesa dell’età nuova nella spiritualità della fine del medioevo, Accademia Tudertina, Spoleto 1962, p. 337.
[12] M. Schmaus S.J., I Novissimi, cit., pp. 184-185.
[13] R. T. Calmel O.P., Per una teologia della storia, Borla, Torino 1967, p. 104.
[14] Benedetto XVI, Gesù di Nazareth – seconda parte, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 172-173.
[15] Cfr. San Pio X, Enciclica E supremi apostolatus cathedra, del 4-10-1903.
[16] Cfr. Pio XI, Enciclica Miserentissimus Redemptor, dell’8-5-1928.
[17] Catechismo della Chiesa Cattolica, §§ 672-674.
[18] C. S. Lewis, The world’s last night, London 1973, p. 106.
[19] E. Corsini, Apocalisse prima e dopo, S.E.I., Torino 1980, p. 11.

Tratto da:

G. Vignelli, Fine del mondo? O avvento del Regno d Maria?, Fede&Cultura, Verona 2013.