La Veste nella celebrazione liturgica: Storia e significati 1)

Per una conoscenza consapevole del mondo della Liturgia della Chiesa Cattolica..
L'Amico dell'Arte www.scuolabeatoangelico.it/vesteprimaparte.html Cristiana n. 3-4 1997

Introduzione
La celebrazione in "Spirito e Verità" propria dell'epoca sacramentale della Storia della Salvezza, che è la nostra, si differenzia dalla celebrazione profetica, quella che invece è propria dell'Antico Testamento. In questa celebrazione il segno, cioè l'immagine, invoca il contenuto; nel tempo sacramentale invece è la realtà che si manifesta nel segno.
Nell'A.T. al cap.28 del libro dell'Esodo una minuziosa prescrizione stabilisce come debbono essere anche le vesti sacerdotali, in particolare quella del Sommo Sacerdote; e ogni elemento viene caricato di forte simbolismo e di sacralità quali riflessi di Dio presente nel rito.

Un diacono, un vescovo, un sacerdote, Chartres, Cattedrale, part. Portale sud.

Il N.T. rifiuta queste realtà caratteristiche dei riti antichi. Famosa è la espressione di Minucio Felice: (II-III sec.) "Noi non abbiamo nè altari ne sacrifici". La nuova religiosità e ritualità nascono dall'interno, dal mistero celebrato, che tuttavia richiede intensità di partecipazione da parte dell'uomo. Proprio da tale partecipazione scaturisce il modo, la qualità, della celebrazione che si manifesta anche attraverso atteggiamenti esteriori. Gesù stesso, per la celebrazione che avrebbe dato compimento al segno profetico del banchetto pasquale, ha voluto "una sala al piano superiore, grande addobbata" (Lc 22,12). I primi cristiani "riuniti nel nome di Gesù celebravano la memoria del mistero pasquale in una dimensione di forte intensità naturale, in cui per la ritualità era quella essenziale dei segni attraverso i quali si ubbidiva al comando di Cristo: "Fate questo in memoria di me".
Altra invece era la ritualità del culto ebraico, quella cio che celebrava la profezia; in essa l'immagine doveva supplire alla incompletezza dell'annuncio con la complessità del suo apparato esterno.
Nella celebrazione cristiana è lo stesso mistero a coinvolgere chi lo celebra, e la partecipazione di questi non può essere meschina, per questo l'uomo esprime se stesso nelle sue possibilità migliori. Le qualità richieste per tale partecipazione sono ovviamente anzitutto quelle spirituali; ma poichè Gesù è venuto a salvare l'uomo nella sua interezza, l'uomo convocato anche con il suo corpo a costituire il popolo di Dio e quindi a porsi in relazione con il suo prossimo ed esprimere i sentimenti interiori.
Se era logico e giusto che i primi cristiani rifiutassero l'esteriorità rituale antica, non potevano per sottrarsi alle leggi antropologiche della convivenza umana, e quindi neppure a quelle che guidano la ritualità naturale.
Non è dunque in contraddizione la Chiesa quando estende l'espressione rituale anche a ciò che non è strettamente essenziale per la celebrazione del mistero.
La liturgia cristiana però presenta una ritualità nuova, che non è un prolungamento di quella veterotestamentaria; è una ritualità capace di rispecchiare la novità dell'uomo riportato da Cristo alla autenticità delle sue orgini.
Parte prima
La Veste Liturgica
Non si può parlare di veste propriamente liturgica se non nel IV secolo, dopo il periodo costantiniano.
L'importanza della celebrazione e il "convenire in unum", cioè il radunarsi, imponeva certamente delle convenienze sociali anche riguardo al vestire, sia per chi presiedeva la riunione e la celebrazione, sia per chi semplicemente vi partecipava. Con l'intervento di Costantino nella struttura ecclesiale, il luogo della riunione, già chiamato semplicemente chiesa, va imponendosi per la sua solennità, nascono le basiliche cristiane, al Vescovo viene riconosciuto l'uso delle insegne dignitarie imperiali. Egli quindi presiede le celebrazioni liturgiche rivestito delle sue insegne, che, sebbene non abbiano un carattere religioso, tuttavia resteranno immutate e lo distingueranno dal resto del popolo di Dio.
La coscienza della grandezza della celebrazione liturgica, e il carattere festivo che la connota, comportano anche nei partecipanti il bisogno di vestire gli abiti migliori che essi possiedono, non per ostentazione ma per significare una più piena partecipazione di sè.
Gesù stesso nel tempio aveva lodato la vedova e l'aveva additata ad esempio non per la povertà della sua offerta, ma per la totalità del suo dono, avendo essa considerato che Dio ne era degno.
Il carattere festivo, espresso anche dal decoro della veste del presbitero che presiede l'Eucarestia, diventa una costante della celebrazione, come pure il modello dello stesso abito. Infatti quando nel VII secolo la moda civile cambia, l'abito del presbitero invece non muta, e così diventa caratteristico e, gradualmente, proprio della celebrazione, e di conseguenza, riservato a questa.
Nessun simbolismo, dunque, vi è all'origine della veste liturgica, bensì la volontà di sottolineare il rispetto dovuto anche, e a maggior ragione, alla celebrazione liturgica come ad ogni altro incontro sociale importante.
Il perdurare della medesima forma dell'abito indossato dal celebrante finisce per fare di tale abito una divisa e quindi, renderlo caratterizzante; e ciò non solo è accettabile ma anche opportuno, perchè libera l'individuo dalle sue particolarità e lo rende "riflesso" di Colui "in persona" del quale egli agisce. Anche l'abito quindi si ritualizza, astraendo dal singolare e proponendo nell'ideale.

Dalmatica di Carlo Magno, Roma Tesoro della Basilica di S. Pietro.

Il Colore


La semplice tunica festiva comune, di colore bianco, rispondeva assai opportunamente al carattere liturgico delle celebrazioni proprio per il simbolismo intrinseco del bianco che richiamava la luce, la novità e la vita, ed anche la pulizia.
Gli evangelisti, narrando il fatto misterioso della Trasfigurazione di Gesù, sottolineano che le sue vesti erano "candide come la luce" (Mt 17,2); "nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche", dice S. Marco; gli angeli annunciatori della Risurrezione indossavano anch'essi "bianche vesti" (Mt 16,5 e paralleli). Candide erano pure le vesti date alle anime di coloro che S. Giovanni vede posti sotto l'altare, i quali "furono immolati a causa della Parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso" (Ap 6,9), e ai quali "fu detto di pazientare ancora un poco, finchè fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro" (Ap 6,11).
Questi diventano moltitudine immensa e l'apostolo Giovanni dice che tutti stavano in piedi davanti al trono e all'Agnello, avvolti in veste candide" (7,9).
Lo stesso Signore risponde al desiderio del veggente che vuole sapere chi siano e donde vengono questi che sono vestiti di bianco. "Essi, dice il Signore, sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello".
Per questo stanno davanti al trono di Dio e prestano il loro servizio giorno e notte nel suo santuario" (7,14-15).
E' facile vedere in queste descrizioni, così come sottolineano alcuni commentatori dell'Apocalisse, un riflesso di celebrazioni liturgiche già in atto in modo solenne nella Chiesa primitiva sottoposta alla persecuzione, ma tuttavia molto fervente.
Dai passi sopracitati mi pare di poter affermare che il simbolismo della veste bianca non astratto e neppure sovrapposto dall'esterno; esso è piuttosto una traduzione cromatica dell'azione purificante e vivificante del mistero pasquale della Morte e Risurrezione di Gesù.
E' dalla globalità del mistero che viene il simbolismo, e non da un suo solo aspetto, per esempio da quello del sacrificio, che avrebbe piuttosto privilegiato il rosso, colore del sangue.
La tunica bianca, ornata o meno, di clavi purpuree, fondamentale dell'abito festivo civile, non trovò quindi difficoltà ad essere usata nella celebrazione liturgica. Gli altri capi di vestiario, che per dignità, o anche per necessità climatiche, venivano indossati sopra la tunica, quali la "paenula nobilis", abito senatoriale, o il pallio, proprio dei filosofi, restano come elemento distintivo, e quindi indicante anche uma funzione, ma non è mai simbolico.
Al colore di questi indumenti che è per lo più il bianco, ben presto se ne aggiungono molti altri, solitamente a tinta uniforme.

Mosaico ravennate di Giustiniano e la sua corte

I molteplici elementi del vestiario liturgico nel corso del Medioevo vanno ricuperando la complessità della veste rituale ebraica e si caricano di simbolismo assolutamente gratuito, e di allegorismo.
A mano a mano che l'attenzione passa dal Mistero celebrato alla materialità della sua celebrazione, e a quanto questa coinvolge, ogni componente riceve un suo significato non più in funzione del tutto, ma di se stessa, iniziando cos il processo di sacralizzazione che durerà fino alla riforma del Concilio Vaticano II.
Con l'inserimento della struttura liturgica romana nella cultura gallicana questo processo si sviluppa sempre più. Non solo le singole cose, ma anche i singoli momenti e gesti che costituiscono l'intero atto liturgico si ritrovano a dover significare momenti particolari della vita di Cristo o un aspetto della sua persona. Ne è esempio l'Esposizione della Messa gallicana dei tempi pre-carolingi. Infatti, già in essa, troviamo un saggio di interpretazione mistica delle vesti liturgiche. Col IX sec. questo tema occupa la discussione e gli scritti dei liturgisti.
Ne fanno scuola Rabano Mauro (ca. 776-856), ancora semplice e breve nei suoi commenti, e Amalario di Metz (ca 770-850 ca.), attento e fantasioso, spesso capace di edificazione.
A questi due maestri si rifaranno in genere i moltissimi che per tutto il medioevo si occupano di questo tema, fino a Guglielmo Durando (+1296), vescovo di Mende, che raccoglie e ordina il tutto nella sua famosa opera intitolata "Rationale".
L'attenzione e il tentativo di lettura di una simbologia proiettata sulle vesti liturgiche viene giustificata anche dalla liturgia, la cui struttura, modificata, presenta preghiere proprie per la benedizione delle vesti, per l'imposizione di esse agli ordinandi e per la loro vestizione prima della celebrazione.
Queste preghiere di benedizione richiamano la realtà simbolica delle vesti sacerdotali dell'Antico Testamento e, di conseguenza, si stabilisce con esse una continuità.
Simbolismo
A questo punto opportuno soffermarci un poco sul simbolismo in generale dei paramenti perchè permette di capire meglio il taglio e la decorazione dei singoli componenti nelle loro diverse realizzazioni lungo i secoli.
Mi rifaccio per questo alla sintesi fatta da G. BRAUN, I Paramenti sacri. Loro uso, storia e simbolismo edito in Italia nel 1914. L'autore presenta i molti significati simbolici classificandoli secondo alcune categorie: Corte di Giustiniano, Ravenna Basilica di S. Vitale (sec. VI). La tunica bianca con davi, in questo caso sia abito civile che religioso.

a) quella morale.
Per essa le vesti liturgiche sono simbolo delle virtù che sono proprie di chi ne rivestito. Se si considerano globalmente, ci risulta vero e corrisponde ad esempio al senso già visto della veste bianca, veste di festa e quindi manifestazione spontanea della gioia interiore e del rispetto verso la celebrazione e la comunità che ad essa partecipa.
[Quando, durante una persecuzione romana del 303, a Cirta, nell'Africa del Nord, fu confiscato un luogo di riunione cristiana, nello scrupoloso inventario fatto dalle guardie tra i vari oggetti di valore, quali calici, libri ecc. figurano annotate anche 82 tuniche da donna e 16 da uomo. Ciò dimostra che in quella comunità tutta l'assemblea, e non solo i ministri, manifestava la sua partecipazione festosa rivestendosi di tuniche speciali (J. ALDABAZAL, Simboli e gesti significato antropologico biblico e liturgico ed. LDC, Torino 1987, p.56). Se per si considerano separatamente i singoli capi dell'arredo vestiario, anche il relativo significato morale risulta deviante.

b) Al senso morale, seguito particolarmente da Amalario e da Rabano Mauro, si aggiunsero nel XII sec., il senso typico dommatico e l'allegorico; secondo quest'ultimo senso coloro che compiono le funzioni all'altare sono soldati di Dio che lottano contro i nemici del suo popolo. In questa lotta l'amitto l'elmo, il camice la corazza, la stola la lancia, il cingolo l'arco, la pianeta lo scudo, il manipolo la mazza. Una simile "simbologia" riflette una perdita totale del significato non solo del segno sacramentale, ma anche del mistero stesso della Eucaristia. Più accettabile, anche se ugualmente errata, la variante secondo la quale le vesti liturgiche simboleggiano Gesù Cristo stesso, e specialmente alcuni dogmi che riguardano il Salvatore, quali la Sua incarnazione, le due nature, il suo insegnamento ecc. Questa interpretazione simbolica non aiuta comunque a capire il concetto fondamentale della liturgia che è espresso dal sintagma "in persona Christi", e neppure l'espressione di S. Paolo che scrive ai Romani (13,14): "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo", e ai Galati (3,27): "vi siete rivestiti di Cristo".

c) Nel XIII sec. si sviluppa una simbologia che Braun chiama tipico-rappresentativa perchè in essa la persona del sacerdote rappresenta quella del Salvatore che soffre, e le vesti del sacerdote ricordano avvenimenti particolari della passione di Cristo. La contemplazione di questa varia simbologia sosteneva l'attenzione e la devozione del popolo cristiano, paziente nell' assistere alla messa e ricco della devozione che fa scoprire nelle cose considerate sacre la risposta anche dottrinale ai propri bisogni spirituali lasciati insoddisfatti dal mancante aspetto didattico della liturgia, conseguente alla alterazione dei segni e dei significati. In essa ormai anche la parola era divenuta incomprensibile a causa della lingua; e i gesti e le cose a loro volta risultavano nascosti da sovrastrutture non liturgiche. Con spirito molto devoto anche il sacerdote, indossando ognuno dei cinque capi che costituivano l'intero paramento, rivolgeva a Dio la preghiera prevista dalle rubriche per ottenere la trasmissione della grazia che il vescovo gi aveva invocato su di essi.
G.V. (continua)