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Il virus giustizialista

Luciano Capone

Ricordate il caso Capua? Il Foglio ha letto la relazione degli ispettori contro Giancarlo Capaldo, il pm che la infangò. E che poi la sfangò

Roma. In questi giorni di preoccupazione e panico per il coronavirus, una delle voci più richieste dai media per avere un chiarimento sul pericolo e sulle caratteristiche dell’epidemia è Ilaria Capua, una delle scienziate italiane più conosciute al mondo, la virologa che ai tempi dell’aviaria del 2006, con la sua decisione di rendere pubblica la sequenza genica del virus, diede un grande impulso globale alla “scienza open-source” che oggi è alla base del contrasto al coronavirus. Il nostro paese non ha trattato bene una delle sue più brillanti ricercatrici, anzi, l’ha massacrata come donna e come scienziata. Ilaria Capua era stata accusata, ingiustamente, da una terribile macchina mediatico-giudiziaria di essere una “trafficante di virus” (così la copertina dell’Espresso con l’“inchiesta” di Lirio Abbate che le ha rovinato la vita) che diffondeva epidemie in combutta con le case farmaceutiche: “La cupola dei vaccini esiste. La procura di Roma chiude le indagini e conferma le rivelazioni de l’Espresso sui trafficanti di virus”, scriveva il settimanale.

  

 

L’inchiesta della procura di Roma, completamente infondata e carente di prove, si è poi conclusa con una pioggia di proscioglimenti. Di questa storia si sa tutto. L’Espresso non si è mai scusato, anzi continua a sostenere di aver svolto diligentemente il proprio lavoro; la Capua si è dimessa dal Parlamento (era stata eletta con Mario Monti) ed è andata via dall’Italia, negli Stati Uniti, dov’è stata chiamata a dirigere un centro dell’Università della Florida. Ma cosa n’è stato del suo accusatore, l’ex procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo? Qualcuno ha chiesto conto del suo pessimo lavoro? Sì, ma tutto è finito in un nulla di fatto.

  

  

Il caso Ilaria Capua, una delle pagine più vergognose della storia giudiziaria del nostro paese, è finito al Csm. Terminato il processo, l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo l’esito di un’ispezione sulla vicenda, promosse un’azione disciplinare nei confronti di Capaldo per essersi macchiato di “una violazione grave, determinata da inescusabile negligenza” degli articoli del codice di procedura penale, della Costituzione e della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: “Con tale condotta il dott. Capaldo – scriveva Orlando – si è reso immeritevole della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, con compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario e dell’immagine del magistrato”. La relazione degli ispettori del ministero della Giustizia, che il Foglio ha potuto visionare, è spaventosa e apre uno spaccato inquietante sul malfunzionamento della giustizia italiana. Gli ispettori spiegano che l’indagine della polizia giudiziaria, iniziata nel 2005, è terminata dopo 5 anni (nel 2010). Dopodiché è rimasta ferma nei cassetti della scrivania del pm Capaldo fino a quando nel 2014 – dopo la rivelazione scandalistica dell’Espresso – il magistrato ha emesso l’avviso di conclusione delle indagini. In questi quattro anni, dal 2010 al 2014, Capaldo non ha fatto praticamente nulla. Non solo. Non ha fatto nulla neanche dopo, visto che si è limitato a copiare nella conclusione delle indagini e nella richiesta di rinvio a giudizio “le bozze delle imputazioni redatte dalla polizia giudiziaria nell’informativa depositata a maggio 2010, senza alcuna valutazione autonoma o selettiva”.

 

In pratica, Ilaria Capua è stata ingiustamente accusata e ingiustamente rinviata a giudizio perché i magistrati non hanno fatto il loro lavoro. Quando poi il procedimento è stato spacchettato in tre tronconi ed è arrivato in tre Tribunali diversi, la Capua è stata completamente prosciolta perché gran parte dei presunti reati erano prescritti da anni e per la “totale carenza di qualsiasi elemento a sostegno della contestazione del delitto di epidemia”. Il gip di Verona, nelle motivazioni, parla di un “travisamento dei fatti da parte degli investigatori che avrebbero confuso due diversi ceppi virali” e di una “complessiva carenza probatoria in ordine al ruolo delle case farmaceutiche in presunti accordi corruttivi”. Quasi 10 anni d’inchiesta, una reputazione infangata e una vita sconvolta per non aver trovato una prova o per non averci capito nulla. Negligenza e ignoranza.

 

Ciò che più sorprende è però l’inerzia dell’azione giudiziaria di fronte a reati gravissimi come l’associazione a delinquere, la corruzione e l’epidemia – quest’ultimo reato punito con l’ergastolo e quindi imprescrittibile. L’inattività del magistrato è gravissima perché ha tenuto sotto indagine per anni una persona innocente, ma sarebbe stata altrettanto grave se il reato fosse stato fondato. Se c’è il rischio che una persona stia diffondendo un’epidemia, com’è possibile lasciare un’inchiesta nel cassetto? Capaldo, nelle sue osservazioni inviate agli ispettori, si è giustificato dicendo che aveva molte cose da fare, aveva cioè un grande carico di lavoro. Ovviamente la giustificazione del magistrato è apparsa inaccettabile sia agli ispettori del ministero sia al ministro Orlando, che ha incaricato la procura generale della Cassazione di procedere con l’azione disciplinare. Ma non si arriverà ad alcuna punizione, perché quando parte il procedimento disciplinare mancano pochi giorni al pensionamento di Capaldo e, in questa lotta contro il tempo, il magistrato romano si prenderà tutto il tempo che gli serve. In pratica Capaldo decide di non presentarsi. Nelle annotazioni di servizio, il funzionario giudiziario scrive che il 14 marzo 2017 contatta telefonicamente Capaldo per concordare un appuntamento, ma lui “rispondeva che si trovava fuori ufficio” e che non aveva “la sua agenda per controllare i suoi impegni e che avrebbe ritelefonato il giorno successivo”. Ma quando il giorno dopo viene di nuovo contattato telefonicamente per la notifica, Capaldo riferisce “di trovarsi in ferie fuori Roma e che sarebbe stato disponibile solo il giorno 23 in tarda mattinata. Prendevamo quindi accordi per la presentazione presso questi uffici per il giorno 23 marzo alle ore 12”, scrive la polizia nella relazione di servizio. La data è molto importante perché il giorno prima, il 22 marzo del 2017, Capaldo compie 70 anni e di conseguenza va in pensione, facendo così decadere l’azione disciplinare. E infatti il procuratore aggiunto sparisce. Nei giorni successivi viene più volte contattato dalla procura generale, “ma il telefono squillava sempre libero e non ha mai risposto nessuno”, annotano le forze dell’ordine nella relazione di servizio. Così il 23 marzo Capaldo non si presenta e, contattato telefonicamente, dice che “aveva ormai preso altri impegni” e di “essere in partenza per l’estero” e che si sarebbe fatto vivo al suo ritorno. Il procuratore generale della Corte di Appello di Roma, Giovanni Salvi, scrive nel verbale che Capaldo “non è comparso senza addurre nessun legittimo impedimento all’appuntamento concordato”. Alla fine il procedimento si conclude con il “non luogo a procedere” per “cessata appartenenza all’ordine giudiziario”. Le ferie, il telefono che squilla a vuoto, il viaggio all’estero. A Capaldo è bastato usare la stessa inerzia che ha sconvolto la vita di Ilaria Capua per salvare la sua carriera, uscendo dalla magistratura senza macchia.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali