L’ultima ghigliottina dello Stato Pontificio e la storia di Mastro Titta, er boja de Roma

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Il 24 novembre 1868 è il giorno in cui, per l’ultima volta nello Stato Pontificio, furono giustiziati due condannati a morte. Si chiamavano Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Furono portati in Via de’ Cerchi, nei pressi del Circo Massimo a Roma, con le mani legate, provvisti dei sacramenti, e ghigliottinati. La rivista dei gesuiti, Civiltà Cattolica dedicò all’avvenimento 51 pagine. Nessuno immaginava, almeno Monti e Tognetti, che il loro buon esempio non sarebbe più stato seguito da altri nello Stato Pontificio. Furono infatti gli ultimi ad essere ghigliottinati. Due anni dopo quegli avvenimenti ci fu la Breccia di Porta Pia che segnò la fine dello Stato Pontificio.

Esecuzione di Monti e Tognetti il 24 novembre 1868 in Via de’ Cerchi, l’ultima condanna a morte mediante ghigliottina negli Stati Pontifici. Quella mattina vengono giustiziati Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. “In mezzo al quadrato militare, si elevava un palco di legname, e sopra quello l’infame macchina della ghigliottina. I primi raggi del sole nascente facevano scintillare il ferro massiccio dal taglio obliquo, aguzzo, lucente” (Gaetano Sanvittore, “I misteri del processo Monti e Tognetti”, 1869). Nell’ottobre dell’anno prima i due rivoluzionari erano riusciti a minare e a far saltare una caserma di zuavi a breve strada dal Vaticano, la Serristori. Il comitato che doveva aiutare l’ingresso dei garibaldini a Roma con una serie di attacchi, in un primo tempo ha valutato di far saltare la santabarbara di Castel Sant’Angelo grazie anche alla complicità interna di alcuni artiglieri in servizio nel forte. L’idea viene però poi scartata per timore di una strage tra i civili.

Nel 1969 San Paolo VI rimosse la pena di morte dagli statuti vaticani, abrogandola per qualsiasi reato. Tuttavia il cambiamento divenne di pubblico dominio solo nel gennaio 1971, quando alcuni giornalisti accusarono San Paolo VI di ipocrisia per le sue critiche alle esecuzioni capitali in Spagna e Unione Sovietica.

La pena di morte venne rimossa completamente dalla Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000 emanata Motu proprio da San Giovanni Paolo II, entrata in vigore il 22 febbraio 2001.

Il 1º agosto 2018 con il Rescriptum “ex Audentia SS.mi” Papa Francesco – che reca impressa la misericordia nel suo stemma – ha dichiarato la pena di morte incompatibile con la fede cattolica, stabilendo una nuova redazione del numero 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica, rendendo la pena di morte sempre inammissibile:
“Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune.
Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi.
Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che «la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona», e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.

24 novembre 1868. Esecuzione a Roma di Monti e Tognetti.

Mastro Titta, er boja de Roma

Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta (Senigallia, 6 marzo 1779 – Roma, 18 giugno 1869), noto anche in romanesco come “er boja de Roma“, fu il celebre esecutore di sentenze capitali dello Stato Pontificio.

La sua carriera di esecutore delle condanne a morte durò ben 68 anni ed iniziò all’età di 17 anni, il 22 marzo 1796. Fino al 18 agosto 1864 raggiunse la quota di 514 (sul proprio taccuino, Bugatti annotò 516 nomi di giustiziati ma dal conto vengono sottratti due condannati, uno perché fucilato e l’altro perché impiccato e squartato dall’aiutante), per una media dunque di 7 condanne annue. Egli operò anche sotto il dominio francese, in cui compì 55 esecuzioni del totale.

Le sue prestazioni sono difatti tutte annotate in un elenco che arriva fino al 17 agosto 1864, quando venne sostituito da Vincenzo Balducci e Papa Pio IX gli concesse la pensione, con un vitalizio mensile di 30 scudi.

Mastro Titta eseguiva sentenze in tutto lo Stato Pontificio. Un anonimo autore del secolo XIX scrisse una sua finta autobiografia, che prende spunto dal taccuino di appunti effettivamente tenuto dal boia, intitolata “Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso”, nella quale gli fa descrivere in questo modo l’inizio della sua attività di giustiziere al servizio di Sua Santità: «….(omissis), impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima il prete di Cannaiola di Trevi e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati». Tale episodio ha ispirato il romanzo “I topi del Papa”, scritto da un discendente del Gentilucci. La finta autobiografia, scritta e pubblicata anni dopo la presa di Roma e la morte del Bugatti, è scritta in chiave anticlericale e presenta Mastro Titta come un cinico e freddo assassino, mano spietata del governo del Papa.

A Valentano, presso l’archivio storico, è reperibile la testimonianza della sua prima esecuzione nella località di Poggio delle Forche, scritta in prima persona: «Il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi, che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità».

Il nomignolo dato al Bugatti fu poi esteso anche ai suoi successori: in alcune terre che fecero parte dello Stato Pontificio, ma a Roma in particolar modo, la locuzione Mastro Titta è sinonimo di boia.

Nei lunghi periodi di inattività, svolgeva il mestiere di venditore di ombrelli, sempre a Roma. Il boia viveva nella cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, nel rione Borgo, al numero civico 2 di Vicolo del Campanile.

Era naturalmente malvisto dai propri concittadini; tanto che gli era vietato, per prudenza, recarsi nel centro della città, dall’altro lato del Tevere (donde il proverbio “Boia nun passa Ponte”, a significare “ciascuno se ne stia nel proprio ambiente”). Ma siccome a Roma le esecuzioni capitali pubbliche decretate dal Papa, soprattutto quelle esemplari, non avvenivano nel borgo papalino ma sull’altra sponda del Tevere – in Piazza del Popolo o a Campo de’ Fiori o nella Piazza del Velabro (dove Monicelli ha ambientato l’esecuzione del brigante Don Bastiano nella pellicola cinematografica “Il marchese del Grillo”) – in eccezione al divieto, il Bugatti doveva attraversare il Ponte Sant’Angelo per andare a prestare i propri servigi. Questo fatto diede origine all’altro modo di dire romano, “Mastro Titta passa ponte”, a significare che quel giorno era in programma l’esecuzione di una sentenza capitale.

Il 19 maggio 1817, George Gordon Byron si trovava in Piazza del Popolo mentre tre condannati (Giovanni Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni) venivano decapitati: il poeta descrisse questa esperienza in una lettera indirizzata al suo editore John Murray.

Lo scrittore inglese Charles Dickens, durante il viaggio che compì in Italia fra il luglio 1844 ed il giugno dell’anno successivo, mentre era di passaggio a Roma, nella giornata di sabato 8 marzo 1845, assistette a un’esecuzione in via de’ Cerchi effettuata dal Bugatti, che commentò nel suo libro “Lettere dall’Italia”.Giuseppe

Delle ghigliottine sono conservati in via Giulia nel Museo Criminologico di Roma, presso la Sala delle ghigliottine: da sinistra a destra: ghigliottina di Chieti; ghigliottina di Roma; gabbia di Milazzo, al centro forca di Alba e calchi di impiccati; ghigliottina dello Stato Pontificio, a terra il cestino di vimini. La ghigliottina pontificia ancora nel settembre del 1922 era conservata presso un locale vicino alle Prigioni Storiche a Castel Sant’Angelo, insieme alle vesti del boia, coltelli di esecuzione, etc- precedentemente depositati presso le Carceri Nuove.

Gioachino Belli ha dedicato vari sonetti a Mastro Titta e al tema delle pene capitali: “Er ricordo”, 29 settembre 1830; “La ggiustizzia ar Popolo”, 8 dicembre 1834; “Er dilettante de Ponte”, del 29 agosto 1835.

La pena capitale di cui si narra in “Er ricordo” del 29 settembre 1830 è quella di Antonio Camardella, colpevole dell’uccisione del canonico e socio in affari Donato Morgigni; impiccagione eseguita nel 1749, ben prima della nascita del Bugatti. Il boia viene però ugualmente chiamato Mastro Titta, tanta era la fama che già ai tempi del Belli, il Bugatti, giunto appena a metà della sua ultrasessantennale carriera, godeva nello Stato Pontificio. Un padre, imbattutosi col figlioletto nella pubblica impiccagione del Camardella, si adegua ad un’antica tradizione romanesca, mostrando al figlio a fini “educativi” la lugubre cerimonia ma colpendolo nel contempo con un sonoro ceffone, perché possa ricordarsi per sempre che nessuno può ritenersi migliore di un qualsiasi delinquente e che, se non si riga dritto, anche i migliori sono.

Er ricordo

Er giorno che impiccòrno Gammardella
io m’èro propio allora accresimato.
Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio e ‘na sciammèlla.

Mi’ padre pijjò ppòi la carrettèlla,
ma pprima vòrze gòde l’impiccato:
e mme teneva in arto inarberato
discènno: «Va’ la forca quant’è bbèlla!».

Tutt’a un tèmpo ar paziènte Mastro Titta
j’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene
un schiaffone a la guancia de mandritta.

«Pijja», me disse, «e aricòrdete bbène
che sta fine medema sce stà scritta
pe mmill’antri che ssò mmèjjo de tene».

Il ricordo

Il giorno che impiccarono il Camardella
io mi ero appena cresimato.
Mi sembra adesso, che il padrino al mercato
mi comprò un “saltapicchio” e una ciambella.

Mio padre prese poi la carozzella,
ma prima volle “godersi” l’impiccato:
e mi teneva in alto sollevato,
dicendo: «Guarda la forca quant’è bella!».

Tutt’a un tratto, al “paziente”, Mastro Titta
appioppò un calcio in culo, e il papà a me
uno schiaffone sulla guancia con la destra.

«Tieni!», mi disse, «e ricordati bene
che questa stessa fine sta già scritta
per mille altri che sono meglio di te».»

Il mantello rosso che Mastro Titta indossava è conservatioin via Giulia nel Museo Criminologico di Roma.

Nella tradizione popolare romanesca è celebre la leggenda che vorrebbe Mastro Titta, ormai divenuto un fantasma, passeggiare talvolta alle prime luci dell’alba, avvolto nel rosso mantello che usava quand’era in vita, nei luoghi delle esecuzioni, presso la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in Piazza del Popolo e in piazza di Ponte Sant’Angelo; si dice anche che talvolta offra una presa di tabacco a chi incontra, così come era solito fare con i condannati.

Postscriptum

Sarebbe lecito chiedersi il perché di queste reminiscenze storiche, senza un motivo apparente. Infatti, di questa “damnatio memoriae” (per chi non lo sa, è una locuzione in lingua latina che significa letteralmente “condanna della memoria” e nel diritto romano indicava una pena consistente nella cancellazione di qualsiasi traccia riguardante una persona, come se essa non fosse mai esistita) avremo bisogno dopo domani, per un nostro articolo molto pesante. Perché, come vedremo, il “fastasma” di Mastro Titta che gira per Roma non è solo una leggenda, ma agisce sotto false spoglie (cioè falsi vestiti, per dire che si comporta come fosse un’altra persona).
A domani!

Foto di copertina: Ghigliottina dello Stato Pontificio.

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