La Chiesa, Israele e le altre religioni

JOSEPH RATZINGER, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000-di Stefano Chiappalone.

Il primo capitolo (1), «Israele, la Chiesa e il mondo. I loro rapporti e il loro compito secondo il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992» (pp. 9-26) prende le mosse dalla necessità – soprattutto dopo Auschwitz – della riconciliazione nella storia dei rapporti tra Israele e la cristianità, una storia caratterizzata alternativamente da ostilità e da accoglienza.

010-vero-ecumenismo-1_54b78797c45aeCi si è dunque chiesti se questa ostilità non derivi proprio dalla fede in Cristo crocifisso – e se ciò implichi automaticamente una condanna degli ebrei. «Davvero le cose stanno così, quasi che il nucleo stesso della fede cristiana porti all’intolleranza, anzi all’ostilità nei confronti degli ebrei […]?» (p. 10).

Partendo da queste premesse la vicenda di Cristo ha subito diverse letture riduttive – tendenti, ad esempio, a posticiparne la divinizzazione, attribuita all’influsso ellenistico – che però «non parlano del Gesù delle fonti storiche, ma costruiscono un Gesù nuovo e differente» (ibid.). La questione non viene così affrontata, bensì aggirata, e la domanda di partenza resta tale e quale.

Il cardinale Ratzinger cita il n. 528 del Catechismo della Chiesa cattolica del 1992: la venuta dei Magi «sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell’Antico Testamento. L’Epifania manifesta che “la grande massa delle genti” entra “nella famiglia dei patriarchi” e ottiene la dignitas israelitica – la dignità israelitica» (p. 12). La stessa missione di Gesù si configura così come riconciliazione di tutti i popoli con Dio, mediante il loro «innesto» nel popolo di Israele.

Ciò non toglie ulteriori interrogativi: «L’immagine storica di Gesù, il suo messaggio e la sua opera corrispondono a questa visione o non finiscono proprio per contraddirla?» (p. 14). In particolare «sono proprio i temi della Legge, del Tempio, dell’unicità di Dio [cui il Catechismo dedica rispettivamente i nn. 577-582, 583-586, 587-591, n.d.r.] a portare con sé tutta la carica esplosiva delle lacerazioni ebraico-cristiane» (p. 15). Molte letture moderne si fanno portatrici del clichè della contrapposizione tra un legalismo farisaico e un Cristo ribelle che libererebbe dal giogo della Legge. In realtà i farisei non sono attaccati solo alla lettera, ma anche allo spirito, e Gesù non è venuto ad abolire la Legge ma a svelarne le potenzialità.

Se l’annuncio del Sinai e il discorso della montagna sono intimamente legati, come si giunge allora al conflitto conclusosi sul Calvario? E come sarebbe possibile, in ogni caso, universalizzare una Legge riferita concretamente a Israele, senza che mediatori umani si pongano al posto di Dio?

«Gesù non ha agito come un liberale, che raccomanda e pratica lui stesso un’interpretazione della Legge aperta e accomodante. Nel confronto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non sono di fronte un liberale e una gerarchia ottusa nel proprio tradizionalismo. Una tale ottica tanto diffusa, misconosce alla radice il conflitto del Nuovo Testamento; in tal modo non si rende ragione né di Gesù né di Israele. La sua apertura della Legge Gesù l’ha piuttosto realizzata in senso pienamente teologico, nella consapevolezza e con la pretesa di agire nella più intima unità con Dio, il Padre, proprio in quanto Figlio, di agire cioè nella piena autorità di Dio. […] Il conflitto tra Gesù e le autorità giudaiche del suo tempo non riguarda in definitiva questa o quella singola prescrizione legale, ma la pretesa di Gesù di agire ex auctoritate divina, anzi di essere lui stesso questa auctoritas. “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30)» (p. 21).

Questo rivela sia la legittimità dell’operazione di Gesù, sia, al contempo, la profondità del contrasto: egli è colpevole, agli occhi di chi non ne riconosce l’auctoritas, di aver violato non un precetto qualsiasi, bensì quello fondamentale dell’unicità di Dio.

Il conflitto si conclude sulla croce, che non ha il duplice effetto di condanna per ebrei e redenzione per i pagani, bensì l’unico scopo di redenzione per tutti; ed è sulla croce che avviene il compimento e l’universalizzazione della Torah, senza togliere neppure uno iota e lasciando intatta la sua unità di culto ed ethos: «tutte le prescrizioni cultuali dell’Antico Testamento vengono assunte in questa morte e in essa condotte al loro significato più profondo» (p. 22), poiché «nella croce viene raccolto tutto il culto, anzi, solo nella croce esso si fa pienamente reale.

Secondo la fede cristiana, sulla croce Gesù manifesta e adempie la totalità della Legge e la trasmette così ai pagani, che ora possono farla propria in questa sua totalità, divenendo con ciò figli di Abramo» (p. 23).

La riflessione sulla crocifissione implica inevitabilmente la questione della «responsabilità collettiva» dei giudei, rifiutata dal Concilio Vaticano II, poiché essa è da imputare a tutti i peccatori. «Il Catechismo Romano del 1566, citato dal nuovo Catechismo (598), aggiunge poi che gli ebrei, secondo la testimonianza dell’apostolo Paolo, “se l’avessero saputo non avrebbero mai ucciso il Re della gloria” (1Cor 2,8). Prosegue quindi: “noi invece professiamo di conoscerlo e poi, negandolo con i fatti, pare che leviamo le mani violente contro di lui” (Catech. R. 1,5,11)» (p. 25). Ciò che conta, conclude Ratzinger riferendosi alla lettera agli Ebrei (12,24), è che «il sangue di Gesù ha una voce diversa – più eloquente – da quella del sangue di Abele, del sangue di tutti coloro che nel mondo sono morti ingiustamente. Non invoca punizione, ma è riconciliazione» (ibid.).

010-vero-ecumenismo-3_54b7883817842Nel secondo capitolo, «La nuova alleanza. Sulla teologia dell’alleanza nel Nuovo Testamento» (pp. 27-48), Ratzinger parte da una questione terminologica – testamento o alleanza? – che va oltre gli aspetti puramente filologici relativi all’interpretazione della parola ebraica «berit»: se «testamento» implica una disposizione unilaterale da parte di Dio, alleanza indica una reciprocità che pone i contraenti sullo stesso piano – e ciò è incompatibile con l’idea di Dio.

Ma se da una parte Dio compie un atto sovrano e unilaterale, «la dinamica del concetto di Dio cambia dall’interno la sostanza del processo, il senso del suo porsi come sovrano. Se ora la vera sostanza di ciò che accade non è più vista a partire dall’idea di patto statuale, ma nell’immagine dell’amore sponsale, come avviene nei Profeti – nel modo più toccante in Ezechiele 16 -, se l’atto contrattuale appare come una storia d’amore tra Dio e il popolo eletto, continua ancora a sussistere l’asimmetria nella sua antica forma? […]

Da una parte, rispetto all’infinita alterità di Dio, il concetto di Dio deve apparire come la più radicale esaltazione dell’asimmetria, dall’altra la vera natura di questo Dio sembra realizzare però un’inattesa reciprocità» (pp. 29-30).

A questo punto l’autore si pone un’altra domanda: «come si distinguono l’“antica” e la “nuova” alleanza? In che cosa consiste l’unità e in cosa la diversità del concetto di alleanza nei due Testamenti?» (p. 30). Se «nella seconda lettera ai Corinzi Paolo pone in netta antitesi l’alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosé, definendo quest’ultima transitoria e l’altra permanente» (p. 31), altri testi paolini, in particolare la lettera ai Romani, rivelano la molteplicità dell’antica alleanza – meglio: delle alleanze, al plurale – quella fondamentale con Abramo, incentrata sulla promessa, e quella successiva con Mosé, costituita dalla Legge: «con questa distinzione viene meno la rigida contrapposizione tra antica e nuova alleanza e si esplicita l’unità carica di tensione della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanza si realizza l’unica alleanza.

Se le cose stanno così, non si possono assolutamente contrapporre l’Antico e il Nuovo Testamento come se si trattasse di due diverse religioni; c’è una sola volontà di Dio nei riguardi degli uomini, un solo agire storico di Dio con gli uomini, che si compie nei suoi interventi, certamente diversi e in parte anche contrapposti, ma in verità sempre intimamente legati l’uno all’altro» (p. 34).

Anche nei testi dell’Ultima Cena è presente questo legame. Nella versione di Matteo e Marco (cfr. Mt 26, 26-29; Mc 14,22-25), Cristo dice che il calice è «il mio sangue dell’alleanza» richiamando «il sangue dell’alleanza» (Es 24,8) con cui Mosé asperge l’altare il popolo ai piedi del Sinai: «la Cena è intesa come conclusione dell’alleanza, cioè come prolungamento dell’alleanza sinaitica, che qui non viene messa da parte, ma appare rinnovata» (p. 38).

Nella versione paolino-lucana (Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-26), Gesù parla della «nuova alleanza nel mio sangue», richiamando la tradizione profetica confluita in Ger 31,31-34. «Al posto dell’alleanza violata del Sinai Dio stipulerà una nuova alleanza – così promette il profeta – che non potrà più essere violata, poiché essa non starà più dinanzi all’uomo come libro o come tavola di pietra, ma sarà scritta nel suo cuore. […] l’Antico e il Nuovo Testamento non sono semplicemente posti l’uno di fronte all’altro come due mondi separati, ma […] l’idea dell’alleanza violata e di quella nuova, stabilita da Dio, era già presente nella fede stessa di Israele» (p. 39).

Dunque per tornare alla domanda di partenza, in che rapporto stanno le alleanze vetero-testamentarie con la nuova alleanza?

Innanzitutto bisogna ricordare che già l’alleanza con Abramo «mostra un indirizzo universalistico e guarda ai molti che dovranno essere dati ad Abramo come discendenza. […] In questo senso la promessa fatta ad Abramo garantisce fin dall’inizio l’intrinseca continuità della storia della salvezza, dai padri di Israele fino a Cristo e alla Chiesa dei giudei e dei pagani» (p. 42).

Quanto all’alleanza con Mosé, è bene tener presente che Legge e Profeti, cioè Legge e attesa del Messia non vanno dialettizzati: sia perché la prima non è solo un giogo, anzi «la Legge stessa è la forma concreta della grazia» (ibid.), in quanto permette di conoscere la volontà di Dio; sia perché il Messia non toglie il diritto, è lui stesso la legge da seguire. «Così in effetti l’alleanza sinaitica è davvero superata, ma, nel momento in cui le viene tolto ciò che di essa era provvisorio, appare la sua vera definitività, viene alla luce ciò che di essa è definitivo. Per questo l’attesa della nuova alleanza, che emerge con crescente chiarezza nella storia di Israele, non si contrappone all’alleanza sinaitica, ma corrisponde alla dinamica dell’attesa che in essa è racchiusa» (p. 44).

Infine possiamo tornare sulla questione terminologica: testamento o alleanza?

Se tutte le alleanze della Bibbia sono asimmetriche, e pertanto «testamenti», disposizioni sovrane di Dio, d’altra parte Egli si auto-impone degli obblighi, «si è fatto nostro debitore, non perché ha ricevuto qualcosa da noi, ma perché a noi ha promesso cose tanto grandi» (p. 45), come diceva Agostino.

Nella visione di Abramo, Dio stesso passa tra gli animali sacrificati, gesto che significa la volontà di pagare di persona l’eventuale rottura di un giuramento. L’esegesi vi vede un’anticipazione della croce, «in cui Dio, con la morte di suo Figlio, di fa garante dell’indistruttibilità dell’alleanza e si consegna radicalmente all’uomo (Gn 15,1-21).

Fa parte dell’essenza di Dio l’amore per la creatura, e da questa essenza discende anche la sua libera scelta di legarsi, che si spinge fino alla croce» (p. 46), affinché assumendo Egli la nostra natura umana, noi partecipassimo della Sua natura divina: «in questo scambio delle nature, che costituisce l’immagine cristologica fondamentale, il carattere incondizionato dell’alleanza divina si è trasformato in una bilateralità definitiva» (ibid.). Il testamento diventa alleanza.

Infine, alla luce dell’essenza trinitaria di Dio, si comprende come «per lui, che è fino in fondo relazione, l’alleanza non sarebbe allora qualcosa che si colloca al di fuori della storia, lontano dalla sua essenza, ma il farsi manifesto di ciò che lui stesso è, “lo splendore del suo volto”» (p. 48).

010-vero-ecumenismo-2_54b788ecb8474«La nuova manna» (pp. 49-55) è l’omelia per una messa officiata nell’agosto 1997 a Monaco di Baviera.

Anche qui si colgono continui contatti tra i due Testamenti, e quindi tra Chiesa e Israele. Nella prima lettura (1Re 19,4-8) il profeta Elia, ultimo profeta rimasto in un Israele divenuto pagano, «deve tornare indietro, per quaranta giorni e quaranta notti, fino al punto dove la storia della fede è propriamente cominciata, fino al monte Oreb» (p. 50), cioè il Sinai.

«Un simile ritorno, il recupero della propria storia, deve ripetersi in continuazione. Avviene nei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto.

La Chiesa cerca di farlo ogni anno nei quaranta giorni di preparazione alla Pasqua: uscire nuovamente dal peso del paganesimo, che continua a spingerci lontano da Dio, tornare sempre a rivolgerci a lui. E all’inizio della celebrazione eucaristica, nella confessione dei peccati, cerchiamo anche noi di riprendere questo cammino, di uscire nuovamente, di tornare ad incontrare sul monte di Dio la sua parola e la sua presenza» (pp. 50-51).

In questo cammino Elia è sostenuto soltanto da un pezzo di pane e da una brocca d’acqua: è la nuova manna, che richiama quella di cui si era nutrito Israele nei quarant’anni di peregrinazione verso la terra promessa. «La manna doveva mostrare che l’uomo può vivere solo di Dio, deve imparare a vivere di Dio; solo allora vive davvero, solo allora possiede cioè la vita eterna, poiché Dio è eterno» (p. 52).

«Ciò che significa questo “vivere di Dio” è espresso con forza in due frasi del vangelo, intimamente legate tra loro: Chi crede ha la vita eterna. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo [Gv 6, 47 e 51]. Vivere di Dio significa anzitutto credere ed entrare così in rapporto con lui, entrare in intima armonia con lui. Ma da quando Dio si è fatto carne […] il credere stesso è divenuto qualcosa di corporeo» (p. 53) nella Chiesa, nei sacramenti, e soprattutto nel sacramento dell’Eucaristia, in cui Cristo si dona affinché viviamo in lui, diventando, come dice San Paolo nella seconda lettura (4, 30 – 5, 2), «imitatori di Dio», nelle piccole virtù in cui si concretizza l’amarsi gli uni gli altri – «come Cristo ci ha amati e ha dato sé stesso per noi come dono e sacrificio gradito a Dio» prosegue san Paolo -, cosa impossibile a realizzarsi se non ci si nutre della «vera manna» (p. 55), cioè di Cristo stesso.

L’ultimo saggio, dal titolo «Il dialogo delle religioni e il rapporto tra ebrei e cristiani» (pp. 57-74), prende le mosse da un brano del De pace fidei, scritto nel XV sec. dal cardinale Nicola Cusano, cui il fallimento del tentativo di unione con la Chiesa greca e la minaccia turca seguita alla conquista di Costantinopoli ispirano una sorta di «utopia ecumenica»: «“Cristo come logos universale convoca un concilio celeste, perché lo scandalo della molteplicità delle religioni sulla terra è divenuto intollerabile”; in esso diciassette rappresentanti delle diverse nazioni e religioni, mediante il logos divino, saranno portati a riconoscere che nella Chiesa rappresentata da Pietro le domande religiose di tutti possono essere appagate”» (p. 57).

Nel frattempo, osserva Ratzinger, questo concilio è disceso sulla terra e la questione ecumenica è ormai all’ordine del giorno. Lungi dal risolvere i problemi, tale questione pone sempre ulteriori domande: «come può accadere ciò? Come è possibile l’incontro nella diversità delle religioni e fra i contrasti che proprio oggi assumono spesso forme violente? Che tipo di unità può mai esserci? In quale misura si può almeno tentare di perseguirla?» (p. 60).

Un approccio falsamente «rassicurante» è quello «mistico», che sfumerebbe la molteplicità delle religioni e dei loro dogmi – con annesse presunte intolleranze – in una esperienza sentimentale, il cui carattere prevalentemente interiore terrebbe al riparo dal conflitto con la ragione.

«La New Age è per così dire la proclamazione dell’età della religione mistica, che è razionale proprio in quanto non avanza nessuna pretesa di verità e dunque per sua natura è tollerante; anche se nel contempo garantisce all’uomo la rottura dei limiti dell’essere di cui egli ha bisogno per poter vivere e accettare la propria finitezza» (p. 62). Come logica conseguenza «l’imperativo centrale di Israele: “Ascolta, Israele, il tuo Dio è un Dio vivente”, che di fatto resta costitutivo anche per cristianesimo e islam, perde così i suoi contorni» (p. 63).

Tuttavia, date queste premesse, «la religione […] diventa, per così dire, una terapia individuale: la salvezza si trova al di fuori del mondo; per operare in esso non ci viene data altra indicazione al di fuori della forza che si può accrescere ritirandosi regolarmente nella dimensione spirituale. Ma questa forza, come tale, non ha per noi alcun messaggio chiaramente definibile. Nel nostro agire all’interno del mondo restiamo dunque abbandonati a noi stessi» (p. 64).

Malgrado l’importanza dell’elemento mistico all’interno delle religioni teistiche, «la fede nell’unico Dio implica necessariamente il riconoscimento della volontà di Dio: l’adorazione di Dio non è semplicemente un’immersione, bensì ci restituisce noi stessi e ci impone l’impegno nella vita quotidiana, reclama tutte le energie del nostro intelletto, del nostro sentimento e della nostra volontà» (p. 65).

Altro modello è quello «pragmatico», secondo il quale, al solito, le religioni dovrebbero mettere tra parentesi le differenze dottrinali e la pretesa di verità di ciascuna, per privilegiare l’impegno pratico in difesa della pace, della giustizia, della salvaguardia del creato, in breve sostituendo l’ortoprassi all’ortodossia. «Ma le religioni non possiedono una conoscenza a priori di ciò che hic et nunc è utile alla pace, di come sia possibile costruire la giustizia sociale negli Stati e fra gli Stati, di come si possa tutelare nel modo migliore la creazione» (p. 65).

Il perseguimento di questi scopi spesso richiede mezzi differenti, che rientrano nel campo dell’opinabile: per fare un esempio, posto che la pace non è la semplice assenza di operazioni militari – che di per sé sola sarebbe al massimo una tregua – bensì la «tranquillitas ordinis», un ordine basato sulla giustizia e la carità, non è detto che l’unico mezzo per ottenerla sia la non-violenza; al contrario talvolta proprio per consolidare la pace è necessario l’uso della forza nei confronti di chi la minaccia (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio, nn. 480-486).

010-vero-ecumenismo-4_54b7896aafe1d«Dove questo pluralismo, spesso non superabile, dei percorsi e il faticoso confronto razionale vengono scavalcati da un moralismo con motivazioni religiosi e una sola via è dichiarata giusta, la religione si trasforma in dittatura ideologica, il cui furore totalitario non costruisce la pace, ma la distrugge» (p. 65)

A questo punto, «falliti» i tentativi di sfumare le asperità delle religioni teistiche, relativizzando la propria idea di Dio e i dogmi, per portare in primo piano l’impegno pragmatico o l’esperienza mistica, ci si chiederà: «la religione teistica, dogmatica e gerarchicamente ordinata, è di necessità intollerante? La fede nella verità formulata nel dogma rende incapaci di dialogo? L’attitudine alla pace è legata alla rinuncia alla verità?» (p. 69).

La risposta è no. Ratzinger dice chiaramente che «l’incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. […] Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo per la fede dell’altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire» (pp. 71-72), pronti anche ad una onesta autocritica – aggiungiamo, senza tradire troppo: previa verifica della fondatezza delle accuse e ricordando che le guance da porgere sono solo due.

Qual è dunque il vero ecumenismo?

Consiste forse nello smettere di evangelizzare, limitandosi invece ad «aiutarsi reciprocamente a diventare migliori cristiani, ebrei, musulmani, induisti o buddisti?

Rispondo di no.

Questa sarebbe infatti la completa assenza di convinzioni, in cui – con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio – non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra essere piuttosto che missione e dialogo non devono più essere forme contrapposte, ma compenetrarsi reciprocamente.

Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, ma ha di mira la persuasione, la scoperta della verità, altrimenti è senza valore. Dall’altro canto la missione in futuro non può più essere compiuta come se si comunicasse con un soggetto fino a quel momento privo di qualunque conoscenza di Dio, a cui deve credere.
[…] All’altro non si dice qualcosa di completamente ignoto, ma si dischiude la profondità nascosta di ciò che egli ha già sperimentato nella sua fede» (p. 73).

Nel suo viaggio apostolico in Brasile del maggio 2007, Benedetto XVI in un bellissimo Discorso ai Vescovi, così si espresse sul vero ecumenismo:

” L’Ecumenismo, ossia la ricerca dell’unità dei cristiani diventa in questo nostro tempo, nel quale si verifica l’incontro delle culture e la sfida del secolarismo, un compito sempre più urgente della Chiesa cattolica.

In conseguenza, però, della moltiplicazione di sempre nuove denominazioni cristiane e, soprattutto di fronte a certe forme di proselitismo, frequentemente aggressivo, l’impegno ecumenico diventa un lavoro complesso.

In tale contesto, è indispensabile una buona formazione storica e dottrinale, che abiliti al necessario discernimento ed aiuti a capire l’identità specifica di ognuna delle comunità, gli elementi che dividono e quelli che aiutano nel cammino verso la costruzione dell’unità.

Il grande campo comune di collaborazione dovrebbe essere la difesa dei valori morali fondamentali, trasmessi dalla tradizione biblica, contro la loro distruzione in una cultura relativistica e consumistica; e ancora, la fede in Dio Creatore ed in Gesù Cristo, suo Figlio incarnato.

Inoltre, vale sempre il principio dell’amore fraterno e della ricerca di comprensione e di avvicinamenti reciproci; ma anche la difesa della fede del nostro popolo, confermandolo nella gioiosa certezza che l’«unica Christi Ecclesia… subsistit in Ecclesia catholica, a successore Petri et Episcopis in eius communione gubernata» («l’unica Chiesa di Cristo… sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui» (Lumen gentium, 8).

In tale senso si procederà verso un dialogo ecumenico franco … impegnandosi al pieno rispetto delle altre confessioni religiose, desiderose di rimanere in contatto con la Chiesa cattolica..”

 


Note

1) Questo volumetto pubblicato nel 1998 (titolo originale: Die Vielfalt der Religionen un der Eine Bund) e apparso in italiano nel 2000, raccoglie quattro contributi del regnante pontefice – allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – concepiti separatamente nel periodo 1994-1997 e scaturiti dalla riflessione intorno a due grandi temi, il «dialogo tra le religioni del mondo, che con il progredire dell’incontro e della compenetrazione delle culture è ormai divenuto una necessità interna» (p. 5), e il rapporto tra Chiesa e Israele – inscindibilmente connesso al rapporto tra Antico e Nuovo Testamento – in relazione ad una diffusa tendenza esegetica ad “accantonare” Cristo dalle Scritture, che se apparentemente eliminerebbe gli ostacoli al dialogo col giudaismo, «porterebbe al tempo stesso alla dissoluzione della parentela spirituale che ci lega ad Israele e, quindi, alle conseguenze estreme già delineate da Marcione: il Dio di Israele apparirebbe come un Dio estraneo, che non è certo il Dio dei cristiani» (p. 6).


L’impegno ecumenico è irreversibile, lo spiega Benedetto XVI da La NBQ 26.1.2011

Il modo sistematico e impegnativo con cui Benedetto XVI ha ribadito l’irreversibilità dell’impegno per l’ecumenismo in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani del 2011, conclusa il 25 gennaio con la celebrazione ecumenica dei Vespri a San Paolo fuori le Mura, ha sorpreso qualche commentatore. Sono però semplici fantasie quelle secondo cui saremmo di fronte a una svolta o a una novità nel Pontificato di Benedetto XVI.

Chi pensa o scrive così ha dimenticato il primo messaggio del neo-eletto Pontefice, del 20 aprile 2005, in cui – tracciando un programma del suo pontificato, e dopo avere anzitutto richiamato lo sforzo per la corretta interpretazione e attuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II – il Papa definiva suo «impegno primario», «ambizione» e «impellente dovere» la prosecuzione del cammino ecumenico. Cinque giorni dopo, il 25 aprile 2005 ribadiva a proposito dell’ecumenismo: «Sulle orme dei miei Predecessori, in particolare Paolo VI [1897-1978] e Giovanni Paolo II [1920-2005], sento fortemente il bisogno di affermare di nuovo l’impegno irreversibile, preso dal Concilio Vaticano II e proseguito nel corso degli ultimi anni».

Nessuna novità dunque, ma attuazione di un programma annunciato fin dal primo giorno del pontificato. La Bussola Quotidiana ha già dato conto dei primi interventi di Benedetto XVI nella Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani 2011, costruiti – come ha ribadito all’Angelus di domenica 23 gennaio – «su questi quattro “cardini”: la vita fondata sulla fede degli Apostoli trasmessa nella viva Tradizione della Chiesa, la comunione fraterna, l’Eucaristia e la preghiera. Solo in questo modo, rimanendo saldamente unita a Cristo, la Chiesa può compiere efficacemente la sua missione, malgrado i limiti e le mancanze dei suoi membri, malgrado le divisioni, che già l’apostolo Paolo dovette affrontare nella comunità di Corinto».

A chi obietta che, se forse avanza con gli ortodossi, con i protestanti il dialogo ecumenico è sostanzialmente inutile, il Papa risponde in modo articolato, ricevendo in Vaticano il 24 gennaio una delegazione luterana tedesca, dopo che – come La Bussola Quotidiana ha a suo tempo riferito – la settimana prima aveva ricevuto altri luterani, quella volta finlandesi. Ai tedeschi, che lo avevano salutato ricordando trent’anni di dialogo con lui, il Papa ha spiegato con un certo puntiglio che come teologo prima e vescovo e Pontefice poi in verità sta dialogando con i luterani non da trenta, ma da cinquant’anni.

Inutilmente? Il Papa ammette, discutendo in modo molto realistico con i luterani tedeschi, che non si è certo vicini all’unità: anzi, «la meta comune dell’unità piena e visibile dei cristiani oggi sembra essere di nuovo più lontana. Gli interlocutori ecumenici portano nel dialogo idee sull’unità della Chiesa completamente diverse. Condivido la preoccupazione di molti cristiani per il fatto che i frutti dell’opera ecumenica, soprattutto in relazione all’idea di Chiesa e di ministero, non vengono ancora recepiti a sufficienza dagli interlocutori ecumenici».

Nessuna illusione, dunque. Ma allora perché dialogare? Il Papa fornisce quattro buone ragioni. La prima è che un clima di cordialità non sostituisce certo l’accordo dottrinale, ma è una delle premesse perché di dottrina si possa almeno discutere. «Nonostante le differenze teologiche che continuano a esistere su questioni in parte fondamentali,  è cresciuto un “insieme” fra noi – dice il Papa ai luterani tedeschi – che diviene sempre più la base di una comunione vissuta nella fede e nella spiritualità fra luterani e cattolici. Quanto già raggiunto rafforza la nostra fiducia nel proseguire il dialogo perché soltanto così possiamo rimanere insieme lungo quella via che in definitiva è Gesù Cristo stesso».

In secondo luogo, il dialogo ecumenico costituisce una testimonianza comune di fronte a una irreligione sempre più aggressiva, che trae pretesto dalle divisioni fra Chiese e comunità per sostenere che nessuna religione è vera. Di fronte a queste «sfide del mondo contemporaneo» – così si è espresso il Papa nei Vespri del 25 gennaio – la divisione delle testimonianze non può, aveva detto il giorno prima ai visitatori venuti dalla Germania, che «recare loro danno», mentre si tratta insieme di «lottare a livello mondiale per le questioni fondamentali».

In terzo luogo, il dialogo permette alla Chiesa Cattolica di testimoniare in un clima cordiale ma fermo a favore dei principi non negoziabili su vita e famiglia, insistendo sul fatto che questi sono accessibili a tutti sulla base del semplice uso di ragione, e se del caso deplorando – ma senza rinunciare a spiegare, e a cercare di convincere – che alcune comunità protestanti si siano allontanate da tali principi. Senza sconti, però. «Fa piacere – ricorda ancora il Papa ai suoi interlocutori tedeschi – affermare che accanto al dialogo luterano cattolico internazionale sul tema “Battesimo e la crescente comunione ecclesiale”, anche in Germania dal 2009  una commissione bilaterale di dialogo della Conferenza Episcopale e della Chiesa evangelica luterana tedesca  ha ripreso la sua attività sul tema: “Dio e la dignità dell’uomo”.

Questo ambito tematico comprende in particolare anche i problemi sorti di recente in relazione alla tutela e alla dignità della vita umana,  così come le questioni urgenti della famiglia, il matrimonio e la sessualità,  che non possono  essere taciute o trascurate solo per non mettere a repentaglio il consenso ecumenico raggiunto finora». No, dunque, a un ecumenismo che non parli di aborto e matrimonio omosessuale solo perché sa già che su questi temi con alcuni protestanti si manifesterebbe un dissenso. Sì, invece, a un dialogo che affronti apertamente questi temi, non per cercare un minimo comune denominatore che non esiste, ma per portare l’interlocutore a riconoscere la verità della posizione che la Chiesa Cattolica sostiene con argomenti di fede e di ragione.

Ma, in quarto luogo, il motivo per cui l’impegno ecumenico è irreversibile è che la Chiesa, per quanto il compito appaia talora non solo difficile ma impossibile, lo percepisce come obbedienza alla volontà e alla chiamata di Dio stesso. È per questo che la Chiesa non si rassegna all’insuccesso, né si accontenta di successi parziali. «La ricerca del ristabilimento dell’unità tra i cristiani divisi non può pertanto ridursi ad un riconoscimento delle reciproche differenze ed al conseguimento di una pacifica convivenza: ciò a cui aneliamo è quell’unità per cui Cristo stesso ha pregato e che per sua natura si manifesta nella comunione della fede, dei sacramenti, del ministero. Il cammino verso questa unità deve essere avvertito come imperativo morale, risposta ad una precisa chiamata del Signore. Per questo occorre vincere la tentazione della rassegnazione e del pessimismo, che è mancanza di fiducia nella potenza dello Spirito Santo».

Bisogna essere molto chiari. Chi afferma di volere seguire il Magistero di Benedetto XVI, «cum Petro et sub Petro», non può escludere da tale Magistero l’ecumenismo, presentato dal Papa fin dal suo primo messaggio del 2005 come una delle colonne portanti del suo pontificato. Il Pontefice ci chiede di «essere grati» a Dio per l’ecumenismo, di credere che «il movimento ecumenico, [è] “sorto per impulso della grazia dello Spirito Santo” ([Concilio Ecumenico Vaticano II,] Unitatis redintegratio, 1)», che proseguire su questa strada è un «nostro dovere» da prendere in modo «serio e rigoroso».

Tutto si può dire meno che il Papa, in materia di ecumenismo, non abbia parlato chiaro. Ma non ci promette risultati. L’ecumenismo va perseguito da ogni fedele anzitutto «con la conversione del cuore e con la preghiera. Infatti, come ha dichiarato il Concilio Vaticano II, il “santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unità di una sola e unica Chiesa di Cristo, supera le forze e le doti umane” e, perciò, la nostra speranza va riposta per prima cosa “nell’orazione di Cristo per la Chiesa, nell’amore del Padre per noi e nella potenza dello Spirito Santo” (Unitatis redintegratio, 24)».

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