La traduzione impossibile. Ed altri deliri.

 

di Roberto PECCHIOLI

L’officina della cultura della cancellazione è aperta ventiquattro ore tutti i giorni dell’anno. Nulla sfugge all’immenso apparato di riconfigurazione mentale di cui è banditrice. Dobbiamo cominciare a negare lo statuto di cultura a ciò che cancella anziché incrementare la conoscenza. Apprendiamo che una grande università tedesca boccia gli studenti di biologia se affermano che in natura i sessi/generi sono due. I gestori di blog e siti in rete mettono in guardia chi scrive persino dall’utilizzare il vocabolo “normale” poiché provoca la censura politicamente corretta se usato in contesti in cui si parla di orientamento sessuale o teoria gender.

Il migliore di mondi possibili, la società sedicente aperta è ormai chiusa a chiave. Il dramma è che troppi non lo sanno – non lo vogliono sapere – e pochissimi hanno il coraggio e la voglia di dare battaglia. Davvero Dio toglie il senno a chi vuol rovinare. Un esempio tra i tanti è la sconcertante vicenda della traduzione della poesia-pistolotto politico di Amanda Gorman, letta in occasione dell’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca. I fatti avrebbero destato incredulità e indignazione solo pochi anni fa, ma oggi siamo davanti a un delicato problema “culturale”. La domanda è: possono le opere di una giovane donna afroamericana ed attivista politica, essere tradotte da qualcuno che non sia donna, giovane, afroamericano/a e neppure attivista? Risposta ovvia, se ci atteniamo alla storia delle traduzioni nel corso dei secoli. Tuttavia, ciò che era ovvio ieri, oggi non lo è più.

Amanda Gorman, sconosciuta sino al 20 gennaio di quest’anno, è stata incaricata di leggere un suo componimento poetico di carattere politico, intitolato The hill we climb. Non osiamo tradurre il titolo, in qualità di maschi bianchi appartenenti – ahimè- alla vecchia generazione, limitandoci a segnalare che hill significa collina e che il verbo to climb indica l’atto di scalare o di arrampicarsi. La Gorman, ventiduenne neo laureata ad Harvard, incarna tutti i luoghi comuni della poltiglia sottoculturale progressista: giovane, donna, nera, impegnata politicamente a sinistra, cresciuta senza padre da una mamma single. Un’icona, un’eroina a prescindere. A nulla vale il nostro personale giudizio negativo sul valore letterario del testo, che abbiamo trovato retorico, ridondante e manicheo. Colpa nostra: pregiudizi eteropatriarcali, o forse, a parziale scusante, il fatto che la traduzione italiana di cui ci siamo avvalsi è stata eseguita da soggetti indegni in base al nuovo criterio etnico, anagrafico e di genere.

La polemica nasce esattamente da questo. Un editore olandese ha incaricato della traduzione una giovane scrittrice, Marieke Lucas Rijneveld. Fatale, scandaloso errore. Una giornalista americana, Janice Deul, anch’essa nera e attivista del variopinto mondo woke (gli autodefiniti “risvegliati”, i forzati della cancellazione, sacerdoti inflessibili della religione degli indignati e degli offesi) ha scritto un duro articolo su uno dei principali quotidiani dei Paesi Bassi, De Volkskrant, una volta portavoce della comunità cattolica, in cui ha vietato alla Rijneveld di tradurre l’opera di Amanda Gorman. Pur riconoscendo le qualità della traduttrice – ritenuta un astro nascente della scena letteraria olandese – la ritiene inadatta a lavorare sull’opera della Gorman perché bianca e – udite udite – in quanto si percepisce sessualmente “non binaria”. Colpita e affondata.

Il comportamento della Deul è discriminatorio e razzista: immaginiamo quale tempesta si sarebbe scatenata a razze e generi invertiti. La povera Rijneveld è bianca- prima condizione ostativa- dunque discriminata per motivi etnici; inoltre, si considera “non binaria”, ovvero ha dubbi sulla sua identità e orientamento sessuale. Una discriminazione intollerabile in base al quinto evangelo gender e politicamente corretto. Si attende invano l’indignata reazione della comunità LGBTQI+.

Il vero paradosso è culturale in senso ampio: secondo le nuove stravaganti regole, una traduzione corretta deriverebbe in primo luogo dall’identità personale dell’autore e di quella del traduttore, che dovrebbero coincidere. La Gorman è donna – quindi a un uomo è proibito tradurla – è giovane (divieto per gli over 30!) è attivista politica, quindi non si azzardi a prendere in mano il testo chi non lo è, infine è di pelle nera, afroamericana. Astenersi perditempo bianchi, gialli, meticci, “nativi americani”. Estremizzando, ma non troppo, seguendo il metodo delle intersezioni identitarie, finirà che solo l’autrice sarà titolata a tradurre se stessa.

Il caso ha avuto strascichi anche in Spagna, dove un editore di lingua catalana ha commissionato la traduzione a un noto specialista di Oscar Wilde e di Shakespeare. Stesso risultato: levata di scudi da parte americana – forse dalla stessa Gorman- e Vìctor Obiols-  sessantenne, quindi escluso a priori per sovraccarico anagrafico- ha dovuto gettare nel cestino il suo lavoro. A differenza della Rjineveld, tuttavia ha reagito. “Vietato perché, nonostante si riconosca il mio curriculum, vogliono una traduttrice donna, attivista e preferibilmente nera.” Ha aggiunto che non è un tema che si possa trattare con frivolezza. “Se io non posso tradurre una poetessa perché è donna, giovane, nera e statunitense del secolo XXI, non posso neppure tradurre Omero in quanto non sono un greco dell’VIII secolo avanti Cristo e non potrei aver tradotto Shakespeare perché non sono un inglese del secolo XVI “.

Elementare, ma l’ideologia della cancellazione – perché tale è, totalitaria e devastante- non ha nulla di logico e di raziocinante. E’ insieme un paralogismo e un sofisma: il primo per l’assurdità del procedimento logico che inficia le conclusioni; il secondo perché l’errore è intenzionale. Viene da sorridere amaramente al pensiero di vite dedicate alla cultura e alla diffusione di grandi opere: slavisti come Ettore Lo Gatto, insigni germanisti come l’istriano Ervino Pocar hanno regalato ai lettori di lingua italiana romanzi immortali e la grande poesia, riuscendo a penetrare non solo i segreti della lingua, ma anche l’anima degli autori.

Generazioni di studenti hanno conosciuto i grandi poemi epici nelle venerande traduzioni di Annibal Caro (la sua Eneide è addirittura del Cinquecento), Vincenzo Monti (“Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta “) o di Ippolito Pindemonte. Non conosceremmo la grande filosofia tedesca senza lo sforzo gigantesco di un Sossio Giametta. E che dire di chi è riuscito nell’impresa di restituire al lettore italiano la complessità degli Esercizi di stile di Raymon Queneau, o dei traduttori che per dieci anni hanno lavorato per offrire al pubblico la traduzione di Finnegans Wake, La veglia di Finnegan, opera oscura, realizzata con la tecnica del flusso di coscienza, in cui James Joyce abolisce le regole della grammatica e dell’ortografia, fa sparire la punteggiatura e le parole si fondono nel tentativo di riprodurre la simbologia del linguaggio onirico.

Nulla, tutti sforzi vani, destituiti di senso in base alla tavola della legge post moderna etnicamente, sessualmente e generazionalmente corretta. Cesare Pavese, langarolo triste, non era autorizzato a tradurre la grande letteratura americana, Fernanda Pivano – donna – non poteva regalare agli italiani l’opera di Hemingway. Probabilmente non ebbe senso decifrare la pietra di Rosetta e scoprire nelle tavolette babilonesi il codice di Hammurabi. Conta solo qui e adesso, il resto è muffa, odore stantio di un passato di cui liberarsi, magari per scalare la collina della Gorman.

Anni fa ci fu mostrata un’edizione originale della prima traduzione nella nostra lingua del Don Chisciotte. Nella prima pagina era scritto “tradotto con fedeltà e chiarezza da Lorenzo Franciosini fiorentino.” Quanta presunzione, direbbe con commiserazione l’anticultura woke (risvegliati ma narcotizzati). Franciosini, in sostanza, confessa la sua inadeguatezza: non è spagnolo, ma fiorentino, lavora nel 1677, settant’anni dopo l’uscita del libro. Era “binario”, come Cervantes, o non lo era? Quanto alla chiarezza e alla fedeltà, potrebbe giudicarla solo l’autore, ma questo è impossibile. E se traducendo ogni parola, il buon Franciosini avesse “snervato il senso,” come temeva Voltaire? La follia della cultura della cancellazione, intrisa di vittimismo, correttezza politica e “furia del dileguare”, come direbbe Hegel, appare evidente anche nell’ambito di questa disputa sulle traduzioni. O almeno, tale dovrebbe apparire: se viene presa sul serio, è il sinistro segnale che non c’è più cultura, ma caos, guazzabuglio, happening senza senso e senza direzione.

Nello specifico, Janice Deul – e la Gorman se la pensa allo stesso modo – sono razziste poiché incitano all’ esclusione per motivi etnici, di genere, di età e di posizionamento politico. Un osservatore si è chiesto quale reazione avrebbe suscitato la richiesta di far tradurre Walt Whitman – lui sì grande poeta – esclusivamente da persone di origini ariane come l’autore di Oh capitano, mio capitano. Oltre la bufera mediatica, probabilmente si sarebbe invocato a carico del malcapitato il TSO (trattamento sanitario obbligatorio).

Non si può più sottovalutare ciò che accade: ogni persona di buon senso dovrebbe reagire con indignazione. Il meccanismo è semplice, se si hanno a disposizione mezzi illimitati e l’intero apparato mediatico-culturale dell’Occidente in agonia: prendi una ragazza nera, ambiziosa e di bell’aspetto, la metti davanti alle telecamere nel momento più favorevole e, da un momento all’altro, un pretenzioso discorso orientato politicamente diventa poesia. Lei diventa una influencer, un fenomeno mediatico da imporre all’adorazione di masse cretinizzate. Il campo di battaglia sono diventate le parole: vi si gioca la partita della libertà o della barbarie.

Siamo immersi in una via senza sbocchi; può aiutarci ad uscirne il grande poeta del labirinto, Jorge Luis Borges, che di traduzioni si è occupato in un racconto visionario delle sue Finzioni, Pierre Menard autore del Chisciotte, che ci sembra gettare luce anche sulla vicenda su cui riflettiamo.  Nel racconto borgesiano (letto –  ohibò – in una traduzione dell’epoca oscura pre-Gorman!) Pierre Menard è uno scrittore francese della prima metà del XX secolo che vuole compiere la temeraria impresa di scrivere il Don Chisciotte. Non intende tradurlo in francese dallo spagnolo d’inizio Seicento, né vuole scriverne una versione contemporanea o copiarlo. Il Menard di Borges non vuole comporre un altro Chisciotte, sarebbe troppo facile. La sua ambizione è produrre delle pagine coincidenti –parola per parola e riga per riga- con quelle di Cervantes.

“Vuole continuare ad essere Pierre Menard e arrivare al Chisciotte attraverso le esperienze di Pierre Menard.” Nella sua ossessione labirintica, ambisce a scrivere un Chisciotte uguale all’originale, a cui perviene attraverso la condizione di autore del suo tempo. Borges sembra quasi prendere in giro il lettore che non sa muoversi nel suo universo di specchi. “Il testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici ma il secondo è infinitamente più ricco “. Il brano è da antologia: “Cervantes scrisse: la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e avviso per il presente, avvertimento per l’avvenire. Scritta all’inizio del XVII secolo, la frase ci appare solo un elogio retorico della storia, ma se scritta alla metà del XX, tutto cambia. La storia è madre della verità: l’idea è sorprendente. Menard non definisce la storia come indagine sulla realtà, ma come la sua origine. La verità storica, per lui, non è quello che accadde; è quello che noi riteniamo che accadde. E’ vivido il contrasto dei due stili. Lo stile arcaizzante di Menard – alla fine straniero – è viziato da una certa affettazione. Non così quello del precursore, che maneggia con disinvoltura lo spagnolo corrente della sua epoca. “

Dal racconto di Borges, in cui brilla un’ironia di alta classe, si possono inferire varie cose: la prima è che in ogni traduzione c’è una sorta di “opera nuova”. I due testi sono diversi nonostante siano identici. In secondo luogo, la differenza è data dal lettore, colui che completa l’opera. Il Chisciotte di Cervantes ha un significato diverso agli occhi dello “sfaccendato lettore” cui si rivolge nel 1605 e di quello della metà del XX, sino a trasformarsi, se attribuito al fantomatico Pierre Menard, in riferimento per una precisa filosofia della storia. Se questa interpretazione borgesiana ha senso ed esistono tante opere quante traduzioni e lettori, la discussione sui requisiti identitari dei traduttori diventa futile, insensata.

E’ evidente che esistono buone e cattive traduzioni, ma desta ilarità la pretesa che la traduzione perfetta (ovvero politicamente corretta) sia realizzata solo da chi risponde a determinati criteri identitari la cui lista si arricchisce ogni giorno. Nel merito, sconcerta pensare che ciò che definisce l’opera della Gorman sia la sua condizione di giovane donna, a tal punto che un uomo (Obiols) o una persona che si autodefinisce “non binaria “(la Rijeneveld) manchino di attitudine a tradurla. E se quello che più la definisce fosse il fatto di essere un’attivista politica? E se avesse più importanza l’età, il colore della pelle o il luogo dove è vissuta? La ragazza sta diventando ricca: conta anche il reddito della traduttrice? E se invece fosse povera? L’elenco potrebbe continuare all’infinito e includere la storia familiare, gli hobby, le passioni, le idiosincrasie.

La conclusione è quella prospettata all’inizio: Amanda Gorman può essere tradotta solo da se stessa! Un bel problema, poiché non le basterà tutta la vita per imparare le lingue… C’è di più: ogni lingua è una specifica maniera di vedere e interpretare la realtà, quindi ogni traduzione tradirebbe l’identità dell’originale e l’unica perfetta sarebbe quella in cui il testo coincidesse parola per parola con l’originale, come nel Chisciotte di Menard immaginato da Borges.

Il paradosso di questa polemica, ovvero l’enfasi posta sugli aspetti che costituiscono l’identità personale dell’autore – e la loro pretesa coincidenza con quelli del traduttore – è la riduzione all’individualismo più estremo. Solo un ologramma dell’autore sarebbe capace di eseguire la traduzione di un’opera in quanto è il solo uguale a se stesso, capace di riprodurre e riversare nel testo tutte le esperienze che lo rendono unico – come ogni testo – irripetibile come unica e irripetibile è ogni biografia personale. Il destino di una cultura siffatta è segnato: la ricerca della traduzione perfetta perché “fedele” rende impossibile ogni traduzione precipitando nell’individualismo più estremo, in cui ogni persona è un mondo a parte, chiuso e incomunicabile all’altro, con in più la contraddizione insuperabile del teorema dell’uguaglianza per equivalenza. E’ a questo che mira la cultura della cancellazione? Temiamo di sì.

E’ n corso una guerra epocale, in cui la sconfitta significa la morte di una civiltà, un confronto il cui campo di battaglia è il bene più prezioso: le parole come segno e pegno di libertà. Non lasciamo via libera ai seminatori di ignoranza e di confusione. Ogni giorno di più, tacere è tradire.