Alla scoperta di San Bernolfo

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(Foto Galleano)

LORENZO BARBERIS.

Bell’incontro lo scorso Sabato 14 maggio, alle ore 21:00, presso la Sala Lettura del Ferrone nell’Oratorio parrocchiale “S. Maria Maggiore” Mondovì, dal titolo “San Bernolfo – Lavori in corso”. Assieme a Cesare Morandini, che coordina il comitato informale per San Bernolfo, e lo storico Giancarlo Comino, mi è capitato di parlare della Cappella di San Bernolfo, un edificio religioso di estremo interesse per Mondovì (e non solo), purtroppo in stato di parziale abbandono.

Cesare Morandini ha presentato la vasta attività del comitato informale e i contatti intrapresi per cercare di giungere a una restauro o, perlomeno, a una messa in sicurezza del bene, mentre Giancarlo Comino ha ricostruito con precisione la storia del bene stesso. Per quanto mi riguarda, ho detto qualche parola sugli affreschi, cercando di sottolineare, soprattutto, l’eccezionalità di questa piccola cappella.

Sotto un profilo di storia e arte locale, infatti, San Bernolfo è particolarmente significativo perché è la devozione del santo locale della città di Mondovì (San Donato, il patrono della Diocesi, è legato appunto a tale sfera religiosa e non alla città in quanto tale); santo specifico della città, non venerato altrove, e avvolto da un alone leggendario, difficile da districare, che lo rende ancora più interessante.

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Secondo la leggenda, Bernolfo era un vescovo di Asti (da cui Mondovì, prima dell’istituzione della diocesi, dipendeva) catturato dagli islamici nei pressi di Mondovì, e sarebbe stato sviscerato appendendo le sue interiora alla carrucola del pozzo della cascina stessa.

G. Patrucco, I Saraceni nelle Alpi Occidentali (Bollettino Storico Bibliografico Subalpino, 1908) e A. Sattia ne “I Saraceni nelle Alpi” (Studi Storici, 1987) collocano la vicenda nel 901, quando l’imperatore Ludovico III di Provenza, deposto il Conte di Bredulo, affidò i territori al vescovo di Asti Eilolfo, che venne appunto ucciso tre anni dopo.

Il Michelotti, nella sua storia di Mondovì, riporta anche una ipotesi curiosa. Stando al Patrucco, la “parte contraria” all’imperatore “aiutasse a stabilirsi nel Frassineto i Saraceni”. Quando Eilulfo diviene vescovo, ottenendo anche, oltre a Bredolo, l’abbazia di San Dalmazzo, l’abate se ne ebbe a male, “per la perdita di alcuni diritti”. I saraceni sarebbero stati “istigati da costoro”. (Michelotti, Storia di Mondovì, p. 18).

La cappella del santo, la cui primitiva costruzione viene collocata verso il XII-XIII sec.), probabilmente conservò le spoglie del santo martire sino al 1514, quando vennero traslate nella Cattedrale cittadina. La prima menzione certa in un documento risale al 1301.

Va detto che la storiografia attuale tende a ridimensionare di molto tale tesi, che deriva in gran parte da quanto ne scrisse Filippo Malabaila, ritenuto un notorio falsario del Seicento. Si ripudia anche la connessione – successiva – tra Bernulfo ed Eilulfo, che per i filologi non ha plausibilità, non essendovi corruzione scientificamente sostenibile che possa spiegare (in assenza di prove opposte) una transizione di questo tipo. In comune, solo il suffisso -Ulf, con riferimento al Lupo (Wolf).

Tuttavia la costruzione, a navata unica di forma rettangolare, fu sottoposta a modifiche ed ampliamenti. Nel XV sec. fu aperta una nuova porta più grande, sullo stesso lato della preesistente, con un bel protiro gotico formato da una crociera con costoloni sostenuti da colonne circolari in cotto con capitelli cubici ed archi ogivali eleganti e di buona fattura. Gli affreschi (ora semicancellati, nel corso del ’600, se non per ordine dello Scarampi nel 1583, per via della peste del 1613: tesi più probabile, in quanto nel periodo, in zona, è attestato un lazzareto. Nel 1583 il visitatore apostolico Gerolamo Scarampi ordinò di bruciare una statua in legno del santo, oggetto di venerazione, perché corrosa.) paiono quattrocenteschi, e in effetti effigiano il santo martirizzato da due figure moresche, anche secondo il più cauto racconto del Nallino, a finire del ’700, che ridimensiona le narrazioni del Malabaila, ma fornisce anche un appiglio per ritenerle misinterpretate, ma non false.

Resta il fatto che, a quanto ne sappiamo, il loro culto, già presente, almeno per il primo, fin dal XII-XIII secolo, si sedimenta dopo l’istituzione della diocesi di Mondovì nel 1388, quando il riconoscimento della sua antica vocazione urbana assume i connotati di un riconoscimento effettivo e legale da parte del papa Urbano VI.

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Un ricco mercante, Guglielmo Badino, che abita alla porta di Vico, commissiona prima del 1444 un elegante reliquiario – in fabrica capitis Sancti Bernulfi – per contenervi le ossa di San Bernulfo, pagandolo 50 lire: in quegli anni la città non si è ancora dotata di reliquie del vescovo di Arezzo, che vi giungeranno a cent’anni esatti dall’avvio della Diocesi, nel 1488. Inoltre, San Donato sarà in primis il santo protettore della Diocesi, mentre invece San Bernolfo sarà il santo protettore della città.

Sta di fatto che alla fine del XV secolo la città riconosceva in lui il suo “santo civico” e gli dedicava una processione solenne con la testa-reliquiario esibita in giro per le strade il secondo giorno di Pasqua, a cui intervenivano l’intero corpo civico; ritualità attestata dal 1491.

Tuttavia, prima del Malabaila, san Bernolfo non viene mai associato ad una figura episcopale, anzi, monsignor Lorenzo Fieschi, vescovo di Mondovì nel momento della consacrazione della cattedrale (1514), scrive di aver collocato le reliquie di san Donato e san Bernolfo sotto l’altare maggiore. Ma mentre per san Donato gli dà il titolo di vescovo e martire, la stessa cosa non accade per Bernolfo che lo appella solamente con il titolo di martire.

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(Foto Guido Galleano)

Gli affreschi sono dunque oggi pochi e mal conservati. In facciata, la Madonna di Vico, in un ovale di cui la cosa più interessante è il curioso edificio difeso da una torre sottostante. La figurazione originale di Segurano Cigna, sul Pilone di Vicoforte, è di metà XV secolo, ma probabilmente l’affresco risale a dopo il 1596, quando era ripreso il culto con la costruzione del santuario.

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(Foto Guido Galleano)

La cascina con torre pare rimandare non tanto al luogo ipotetico del martirio del santo, quanto a una reale cascina della zona, magari con torre facente parte delle fortificazioni che andranno distrutte con le Guerre del Sale.

Gli affreschi sono tutti cancellati, e l’unico in parte conservato (oggi nascosto / protetto da un tendaggio) è quello che raffigura il santo nell’atto di essere martirizzato. Questa figurazione, probabilmente quattrocentesca (in assenza di più precisi riferimenti) mostra un santo barbuto, mentre il reliquiario del 1444 – quindi, a grandi linee, coevo – lo mostra glabro e decisamente più giovane. Un dualismo che permane in altre figurazioni del santo.

In cattedrale (affreschi del 1850 circa) è effigiato in un medaglione simmetrico a quello di Sant’Evasio, venerato in Carassone; vestito da vescovo (la croce pettorale in oro può richiamare quella bianca su fondo rosso dello stemma del comune) con pastorale e un putto piuttosto cresciuto, efebico, che gli regge la palma del martirio. Quattro puttini si affannano inoperosi alle sue spalle (non ha altri simboli da affidare loro, nel suo trionfo), mentre egli ascende al cielo, un piede a dominare l’orbe terracqueo, lo sguardo a Dio.

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Se quindi da un lato l’interesse deriva dalla testimonianza di questo Santo civico, elemento in fondo cruciale dell’identità cittadina, un interesse più generale è la rara figurazione del Cristo Melanconico.

L’affresco sopra l’altare maggiore, in cui si inserisce, appare staccato dal muro e fissato su un pannello di supporto; era in origine un’ancona, o pala d’altare, dipinta sul muro invece che su una tavola: i vari riquadri sono separati da file di mattoni imbiancati al posto delle cornici lignee. Si ritiene non faccia parte del complesso originario, ma sia stata integrata in un periodo successivo. Il monogramma che si indovina sulla decorazione in basso appare il sole radiante del monogramma di San Bernardino da Siena, la cui predicazione si colloca nella prima metà del Quattrocento.

Viene datata alla fine del XV secolo. È diviso in sette riquadri: in alto a sinistra l’arcangelo Gabriele, al centro il Cristo seduto sulla croce in atteggiamento pensoso, a destra la Vergine annunciata, in mezzo la Madonna tra due santi, e in basso una scena di Cristo che predica tra gli Apostoli.

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Da notare che la figurazione ha i tratti tipici della Melanconia (che nella sua figurazione allegorica pura è ovviamente femminile) così come codificato autorevolmente da Albrecht Durer a inizio ’500; gambe incrociate, testa reclinata su un braccio, l’altro in grembo, espressione di soffusa tristezza.

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(foto Guido Galleano)

Molto significativo che l’immagine del Cristo Melanconico si inframmezzi all’annunciazione, com un mirabile esempio di Arte Sequenziale antica. L’arcangelo reca un giglio, simbolo di purezza, e sullo sfondo ha il muro dell’Hortus Conclusus, segno della verginità inarrivabile di Maria. Maria attende a braccia conserte, vagamente melanconica anch’ella.

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La scena dell’annunciazione è quindi spezzata dall’inserimento della figura del Cristo Melanconico seduto sulla Croce, una figurazione rarissima, che ha forse un riscontro in una analoga figurazione germanica, per ora scarsamente documentata. Alcune fonti lo collegano al “Cristo di Pietà”, che è però una figurazione del Cristo morto, dopo la deposizione dalla croce, e quindi con espressione sofferente, ma meno accentuata del Christus Patiens, e non certamente quella del Christus Triumphans dopo la resurrezione o, nelle figurazioni più antiche, anche sulla Croce stessa.

Tuttavia qui è un Cristo prima della Crocifissione, dopo la flagellazione e già coronato di spine, soggetto a un ultimo momento di tristezza.

Certo il “Cristo Melanconico” ha fonti filologiche fin dal testo evangelico: è il Cristo del Getsemani, del “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”.

Una figura che ritorna in modo ancor più preciso nel Dies Irae, sequenza latina medioevale di enorme fortuna, che fa esplicito riferimento al “sedersi stanco” prima del supplizio.

Quaerens me, sedisti lassus,
redemisti Crucem passus:
tantus labor non sit cassus.

Ovvero:

Cercandomi ti sedesti stanco,
mi hai redento con il supplizio della Croce:
che tanto sforzo non sia vano!

Tuttavia, questa figurazione non è pressoché passata nella storia dell’arte, ed è da chiarire perché si trovi qui. Al di là di ogni contestualizzazione, è innegabile la modernità di questo Cristo melanconico, che appare una delle sue letture preferite del ’900, sulla scorta forse del Cristo di Gaugin, melanconico nell’orto degli Ulivi (1889).

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Al di sotto di questa prima fascia, la più interessante, tre riquadri di maggiori dimensioni che raffigurano: san Bernolfo in vesti episcopali; la Madonna in trono col Bambino; a destra san Donato vescovo di Arezzo e patrono di Mondovì. Anche qui c’è una struttura simile: Bernolfo (giovane e imberbe, con pastorale e libro chiuso, come l’altro, ma col pettorale a croce d’oro che ritroveremo in cattedrale: forse è chiuso, il rosso mantello, per coprire l’orribile martirio). In mezzo la Vergine col Bambino (in un concetto di arte sequenziale, la sequenza 2 del ciclo; ma qui messa in mezzo ai due vescovi, richiama di fatto la Vergine di Vico posta, in seguito, in facciata).

Ovviamente l’idea che i due vescovi siano Bernolfo e Donato è ipotetico, a causa della collocazione: una risignificazione, magari, dopo lo spostamento. Avremmo qui un Bernolfo giovane (come il reliquiario del 1444, ma non come l’affresco coevo a fianco al quale era collocato) e vescovo (sul muro, il martire, anziano, è nudo, quindi senza mitra vescovile, come ovvio).

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(Alcuni dei santi apostoli, nelle foto di Guido Galleano)
In basso, sulla predella, una fascia continua rappresenta Cristo coi dodici apostoli, la sequenza numero 3 sotto il profilo temporale (la 4 essendo il Cristo melanconico, e 5-6 Bernolfo-Donato). Al centro vi è Cristo, molto ieratico, nell’atto probabilmente di predicare. Appare possibile che le figure fossero originariamente a figura intera, e solo in seguito tagliate (o forse coperte?).

Insomma, molto vi è ancora da indagare; ma è indubbio che la cappella potrebbe essere uno snodo importante nell’itinerario del gotico monregalese, in generale dotato di una sua specificità e di un suo fascino (forse non commercialmente, turisticamente sfruttabile…) che meriterebbero nel complesso maggiore attenzione.