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Letteratura contro ideologia. Da Rosso Malpelo ai non vaccinati di Emanuele Gavi

emanuele gavi letteratura scuola Jul 23, 2022
 
Egregio Direttore,
 
qualcuno mi dirà che il triangolo della letteratura è una sintesi efficace, ma non basta a coinvolgere i giovani. Di Dio non importa nulla agli adolescenti, della morte non vogliono sentir parlare, e per quanto riguarda l’amore… forse il tema può attirare le fanciulle, ammesso che non si siano già bruciate tutte le esperienze e vivano nel disincanto e nello scetticismo, ma i maschi proprio no. Io non sarei così sicuro che ai nostri ragazzi questi argomenti non facciano né caldo né freddo, anzi! L’esperienza mi dice il contrario. Ed è naturale che anch’essi siano interessati a ciò che tocca nel vivo ogni essere umano, benché magari ostentino indifferenza.
 
Sia come sia, proviamo a porci di nuovo la domanda “A cosa serve la letteratura?” e a rispondere in modo diverso. Uno spunto interessante lo fornisce Harold Bloom, il celebre critico statunitense scomparso nel 2019. Nel saggio Come si legge un libro e perché, pubblicato nel 2000 sia negli Usa che in traduzione italiana, Bloom scrive che per rinnovare il modo in cui leggiamo abitualmente dobbiamo fare nostro un principio di Samuel Johnson, letterato inglese vissuto nel Settecento: Liberare la mente dal gergo. E spiega:
 
“Nel senso che ci interessa qui, il gergo è un linguaggio fitto di luoghi comuni carichi di ipocrisia, il vocabolario particolare di una setta o conventicola. Poiché le università sono governate da conventicole che agitano i vessilli del «multiculturalismo» o di «gender e sessualità», l’ammonimento di Johnson si trasforma in «Liberare la mente dal gergo accademico»”.
 
Quando lessi queste righe, nei primi anni Duemila, non capii a cosa si riferiva Bloom. In Italia l’ideologia del politicamente corretto (così la definisce giustamente Eugenio Capozzi in Politicamente corretto. Storia di un’ideologia) esisteva già, ma non si era fatta così invadente e autoritaria come oggi. In particolare, da noi il termine gender non era ancora entrato nell’uso: si affermerà negli anni Dieci. Dopo la vittoria di Barack Obama alle elezioni presidenziali americane, l’ombra del politicamente corretto, inclusivo solo a parole, ha oscurato il sole del libero dibattito anche in Italia. La cappa di piombo del nuovo totalitarismo è scesa su di noi. E allora riscopriamo la letteratura.
 
La letteratura infatti, come insegna Bloom sulla scia di Johnson, ci libera. Ci libera la mente. Ci apre gli occhi. Ci permette di smascherare gli inganni, le falsità e le imposizioni della cultura dominante. Di vedere e rifiutare i nuovi stereotipi a cui dobbiamo assoggettarci in nome della “lotta agli stereotipi”, che spesso non sono altro, questi ultimi, che dati di fatto, realtà della vita. Love is love è uno stereotipo, e se non si può dissentire è un dogma, un’imposizione. Che un bambino abbia bisogno di suo padre e di sua madre è realtà.
 
Il politicamente corretto ha gettato la maschera, si è fatto cancel culture, mostrando il volto illiberale di chi vuole cancellare non solo chi la pensa diversamente, ma il passato stesso. Altro che difendere la storia, come millantano tanti intellò. Siamo alla damnatio memoriae dell’intera civiltà occidentale (che è la nostra, la mia e la tua, se qualcuno se lo fosse perso).
 
In questi tempi bui, allora, la letteratura, per riprendere un termine caro allo scrittore cattolico Rino Cammilleri, è l’antidoto al veleno dell’ideologia. È un antidoto potente, forse uno dei pochi rimasti in circolazione. Ed ecco perché è minacciata: nelle università americane l’insegnamento dei classici greci e latini viene soppresso. Harold Bloom aveva ragione.
 
Facciamo qualche esempio. Chi ha studiato Pascoli sa che avere un padre è fondamentale: perderlo è una disgrazia che condizionerà l’intera esistenza. La guerra alla figura paterna che tutto il Novecento ha condotto, da Kafka al Sessantotto fino al femminismo radicale odierno e alle cosiddette famiglie arcobaleno (in realtà esperimenti sui bambini) non può essere vinta se a scuola si continuano a studiare le poesie di Pascoli. Due donne non fanno un padre. Così come due uomini non fanno una madre.
 
Ancora. Chi ha letto il Paradiso di Dante sa bene che la religione cristiana è fede ma anche ragione. Infatti Dante, nel suo viaggio con Beatrice attraverso i nove cieli, non si limita a guardare e a prendere nota, ma si interroga, fa mille domande, vuole capire. Il cristianesimo non è fideismo o peggio superstizione, ma uso della ragione coniugata con la fede e illuminata dalla grazia divina. Chi ha letto Dante sa che non è una religione come le altre. Sa che le religioni non sono tutte uguali.
 
Chi ha capito qualcosa di Galileo, poi, è consapevole che il fideismo si trova in dosi massicce anche tra gli scienziati, in particolare in coloro che della scienza fanno un idolo. Ieri veneravano Aristotele o Tolomeo, oggi si inchinano ai burocrati dell’Oms, incensano i cosiddetti vaccini anti Covid o credono fanaticamente nella teoria del riscaldamento globale di origine antropica (ma si veda qui). Queste sono superstizioni scientiste, non vera scienza, che è sempre aperta al dibattito, a mettere in discussione le precedenti acquisizioni e a correggere possibili errori.
 
Prendiamo in esame una famosissima novella di Verga: Rosso Malpelo. Più che un racconto a sfondo sociale, come di solito viene intesa, si tratta di una storia straordinaria che ci parla della morte. Il protagonista ha i capelli rossi, così come è rossa la rena della cava in cui lavora: un po’ come dire che il ragazzino soprannominato Rosso Malpelo è una creatura della cava (ce lo conferma il narratore: “la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo»”; e ancora: “sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli”). Ma la cava è il regno della morte: chi vi lavora vive sottoterra, in compagnia dei defunti, di coloro cioè che hanno perso la vita nei suoi cunicoli, e di cui non sono mai stati trovati i resti. Così il testo (il grassetto è mio):
 
“– Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, – pensava Malpelo – dovrebbe essere buio sempre e dappertutto.
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: – Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può andare a trovarli”.
 
Dunque Malpelo, da vivo, si trova già sepolto insieme ai defunti, vive un’esistenza da morto. E la novella ci presenta una lunga teoria di morti: il padre di Malpelo, l’asino, il compagno-allievo Ranocchio e il protagonista stesso, che nel finale accetterà un incarico pericoloso e scomparirà inghiottito per sempre dalla cava. Perché non si sia rifiutato, Malpelo, rimane implicito: forse per la sua consueta rassegnazione, ma più probabilmente perché ha compreso che anche per lui, come già diceva all’asino mentre lo prendeva a bastonate, oppure a Ranocchio mentre lo vegliava malato, piuttosto che continuare a vivere a quel modo, la cosa migliore era “crepare presto”.
 
Tramite la figura di Malpelo, insomma, il nichilista Verga ci comunica la sua filosofia desolata. Malpelo ha imparato sulla sua pelle, assistendo alla morte del padre, che la vita è una lotta per la sopravvivenza, dominata dalla legge del più forte (per questo, nella sua ottica distorta, se picchia il povero Ranocchio lo fa a fin di bene: il suo scopo è fortificarlo, insegnargli a non soccombere). Ma in realtà la lotta per sopravvivere è persa in partenza, per chi come noi è destinato alla morte. Il giovane renaiolo Malpelo l’ha capito meglio di tutti, perché vive come fosse già morto. Riferendosi al suo asino, di cui lui e Ranocchio contemplano la carcassa spolpata dai cani, dice: “Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio”. Meglio non essere nati: altro che novella sociale! Siamo dalle parti di Sofocle, della tragedia greca, del leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Questa è la grande letteratura: quella che medita sul destino umano. Ed è con questo genere di testi che vale la pena di confrontarci, anche se io personalmente non sono dello stesso avviso, e credo piuttosto che siamo nati e non moriremo mai più, per citare il titolo di un best seller della fede.
 
Né manca un accenno all’aldilà, di cui si nega l’esistenza (Ranocchio spiega a Malpelo che i morti che sono stati buoni vanno in cielo, in paradiso, ma viene da lui deriso: “Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno […]. Invece è là sotto”, ovvero è finito sepolto vivo nella cava). E in filigrana troviamo anche il tema dell’amore: lo sconfinato e insoddisfatto bisogno d’amore di questo “monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti”, il quale perde l’unica persona che gli voleva bene, suo padre, e viene maltrattato ed emarginato da tutti, comprese la madre e la sorella maggiore.
 
La morte, Dio, l’amore: i grandi temi della letteratura. Ma oltre a farci riflettere sui massimi sistemi, Rosso Malpelo è un testo ricchissimo di spunti, sociali prima di tutto: la negazione dell’infanzia, il lavoro minorile, le morti bianche… Ma anche psicologici, come la profezia che si autoavvera (Malpelo diventa davvero cattivo come lo dipingono, si adegua al ruolo che gli hanno affibbiato) o la solidarietà tra derelitti (Malpelo che regala al più debole Ranocchio la mezza cipolla che gli doveva fare da companatico).
 
Ma questa novella terribile e straordinaria ci serve anche da antidoto contro i trucchi dell’ideologia. Pensiamo alla figura del diverso (qui il ragazzino coi capelli rossi): ieri rifiutato, oggi osannato (abbiamo già avuto modo di parlarne, caro Direttore). E il diverso diventa il capro espiatorio: anziché protestare col padrone della cava, di cui in controluce cogliamo tutta l’indifferenza e la crudeltà, i renaioli se la prendono con Malpelo, colpevole solo di essere Rosso e non bruno come gli altri. Così si stemperano le tensioni sociali. Ci ricorda qualcosa? Basta sostituire al padrone il governo italiano, ai renaioli i cittadini (mi verrebbe da dire: i sudditi), al povero Rosso Malpelo quelli che anziché stare rintanati nelle loro abitazioni si facevano una corsa per i prati o prendevano il sole in spiaggia, e poi i giovani della movida, gli imprudenti che tengono la mascherina sotto il naso, per arrivare ai non vaccinati. I non vaccinati oggi sono i diversi, i nemici del popolo. E secondo la narrazione dei padroni del discorso vanno esclusi, temuti, persino odiati. Se le cose vanno male, mica vorremo prendercela col nostro ottimo governo, con la decisione di imporre il lockdown o con dei “vaccini” che non sono serviti a granché, se ora è necessaria la terza dose… Arrabbiamoci gli uni con gli altri, come i capponi di Renzo, non con chi è al potere (e gongola).
 
A fine luglio l’ineffabile Burioni i No Vax se li immaginava “chiusi in casa come dei sorci”. Un po’ come il padre di Malpelo, il quale, scrive Verga, “aveva fatto la morte del sorcio”. Questa è attualità della letteratura. Ma anche, per chi vuol capire, letteratura contro ideologia.
 
Cordiali saluti
 
Emanuele Gavi
 

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