Decline and Fall

Il cammino percorso dalla Chiesa in pochi decenni lo si può constatare visivamente su internet. Si guardi un’uscita di Pio XII dal Vaticano: in sedia gestatoria, portato a spalla da nobili romani in tight, tra corazzieri e flabelli; il Sommo Pontefice, in guanti bianchi e col triregno in testa, benedice la folla acclamante con le tre dita della mano destra (anche se mancino) in nome della Trinità. Oggi, papa Francesco si fa i selfie con i fans e scambia lo zucchetto con chi gli chiede l’autografo. Il permesso di indossare il clergy-man al Sinodo è stato salutato da vescovi e cardinali con salve di hurrà. C’è da chiedersi, a questo punto, perché il papa continui a vestirsi da papa. Non sarebbe più comodo un clergy-pope bianco? Ed strano che non ci abbia ancora pensato, visto che, al momento dell’elezione, ha evitato il tradizionale «Sia lodato Gesù Cristo» per un più popolare «Buonasera!», rifiutandosi di mettersi sulle spalle lo scapolare rosso. Ma è stata una discesa lenta, per gradi, cominciata con Giovanni XXIII, il primo papa televisivo (e telegenico), continuata con Paolo VI che abolì in un sol colpo il «noi», la sedia gestatoria e il triregno (che fece vendere «per i poveri» e che finì, come previsto, comprato da un miliardario americano e fortunosamente ricomprato con una colletta di fedeli). Giovanni Paolo I non fece in tempo a continuare a percorrere la discesa d’immagine. Il suo successore, dovendo effettuare estenuanti safari d’evangelizzazione intorno al mondo, necessariamente si ritrovò con piume sioux e sombreri messicani in testa. Fu lui a inaugurare gli incontri inter-religiosi di Assisi, dai quali discende in filiazione pressoché obbligata l’attuale Sinodo per l’Amazzonia e i suoi paventati sincretismi. Dall’«appello agli uomini delle Brigate Rosse» di Montini alla telefonata in diretta a «Porta a Porta» che festeggiava il compleanno di Wojtyla il passo fu breve. Benedetto XVI cercò timidamente di restaurare almeno l’autorevolezza d’immagine del papato ripristinando il pastorale con l’antica croce, il copricapo detto «camauro» e spendendosi in tutti i modi per la preservazione della messa in latino. Ma non poté (più) esimersi dal rito assisano, dal visitare scalzo la moschea (be’, almeno non baciò il Corano), dal presiedere al rito di ritiro di pistoline e fucilini giocattolo che un malinteso pacifismo clericale aveva orchestrato in alcune parrocchie romane. La «Chiesa che chiede scusa», tuttavia, l’aveva preceduto. Per il resto, se ebbe davvero qualche velleità restauratrice («restaurare vuol dire riportare all’antico splendore», aveva scritto), non fece in tempo. Ormai il clero aveva ceduto. Per paura della persecuzione o dell’impopolarità, il bisogno di essere-come-gli-altri portò al disgusto per l’abito e per tutto quello che distingueva-separava i pastori dal gregge. E il piano inclinato si sa dove conduce, anche se non si sa dove va a finire. Mia moglie l’altro giorno andò in chiesa per confessarsi. C’era un confessionale libero e vi si portò. Dentro c’era uno, maglione e jeans. «E lei chi è? Che ci fa qui?», chiese mia moglie. «Sono un prete», fu la sorridente risposta. «E come faccio a esserne sicura?». Seguì una discussione piuttosto animata alla fine della quale mia moglie rinunciò a confessarsi e se ne andò. In effetti, è pur vero che un mitomane può benissimo travestirsi da prete e carpire le più intime confidenze delle signore, l’abito non fa il monaco. Tuttavia, il mitomane di cui sopra rischia col suo atto la prigione, cosa che rende più improbabile che a qualcuno venga in mente di usurpare la funzione sacerdotale. Nel «nuovo corso» di gesti simbolici tipo pachamama è singolare che la religione che, di simboli, ne aveva più di tutte le altre, il cattolicesimo cioè, abbia buttato alle ortiche i suoi per presentarsi con la chitarra al collo e le piume in testa. Così è più credibile? Boh, le papaline dicono di sì e si comportano di conseguenza. Vabbè, allora, aspettiamo il clergy-pope (è strano che non ci abbia ancora pensato), anche se dovremo sorbirci le antiestetiche scarpe nere. No al trionfalismo, fu lo slogan negli anni Sessanta. Sì al pauperismo, di conseguenza. Infatti. Ma che cosa ne pensa il popolo, quel popolo alle cui «istanze» si dice di voler venire incontro? Pochi anni fa il giornalista Stefano Lorenzetto, re degli intervistatori, chiese a uno qualsiasi che cosa ne pensasse dei selfie di papa Francesco. Il nome non lo ricordo ma è così anonimo che anche il richiamarlo non servirebbe a niente. Era un popolano, sì, però era, ed è, uno che tutti conoscono: lo vedete sempre ai tiggì, si piazza a favore di telecamera dietro a un politico intervistato e, penna in bocca, fa la faccia interessata. Ebbene, così, in romanesco, rispose a Lorenzetto: «Er papa deve fa’ er papa, nun se deve fa’ ‘e selfie!».