mercoledì 14 febbraio 2018
Il 1° dicembre l'approvazione della legge sullo «scioglimento» del matrimonio. L'impatto su un Paese che sta cambiando in profondità
Una manifestazione contro il varo della legge (Archivio Avvenire)

Una manifestazione contro il varo della legge (Archivio Avvenire)

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Continua il viaggio lungo 50 anni della nostra storia. È la storia di «Avvenire», che taglierà il traguardo il prossimo 4 dicembre, e insieme del mondo che su queste pagine è stato raccontato a partire da un punto di vista originale e inconfondibile. È l’impegno che consegnò come una missione il beato Paolo VI quando volle la nascita di un quotidiano nazionale di tutti i cattolici italiani, punto di incontro vivo tra le loro molteplici voci e insieme luogo di dialogo con le diverse anime della società.

Quando la Camera approva in via definitiva la legge sul divorzio, Paolo VI non è a Roma. Neanche in Italia. È dove più lontano potrebbe essere: a Sydney, nel corso del suo viaggio apostolico in Asia e Oceania, seguito dall’inviato di Avvenire Gian Franco Svidercoschi. E così il primo dicembre 1970 la legge che segna un prima e un dopo, un autentico spartiacque per la società italiana, non si divora l’intera apertura di prima pagina: «Divorzio: la Camera vota sì alla legge» è bello grande, ma sotto l’annuncio: «L’arrivo in Australia».

Nessun commento quel primo dicembre, ma la spiegazione è semplice. La legge è approvata a notte fonda, con il giornale già in tipografia, in tempo solo per inserire il titolo in "ribattuta". La cronaca di Giorgio Brovelli si ferma alla soglia dell’approvazione. Pochi si ricordano che la legge Fortuna-Baslini, alla Camera viene discussa assieme al cosiddetto Decretone antincongiunturale. Un grosso (e interminabile) minestrone che di fatto annulla ogni possibilità di reale dibattito. Dalla cronaca comunque si comprende come l’esito sia scontato. In prima fila nella Dc è Maria Eletta Martini, che così spiega il senso degli emendamenti democristiani, tutti respinti: «Tendono ad assicurare una maggiore tutela dei figli, aspetto del tutto trascurato» ma che ha «ben altro rilievo nelle legislazioni dei Paesi divorzisti».

Lo spartiacque viene varcato così all’ora delle streghe, dopo una votazione infinita. E il primo commento può comparire soltanto il 2 dicembre con la firma di Vittorio Bachelet, presidente dell’Azione cattolica. Avvenire si era affidato a lui anche il 24 settembre, con la legge al Senato. Chi cercasse quei toni aspri da guerra di religione, che oggi ogni tanto vengono evocati, resterebbe deluso. Su Avvenire, almeno, i cattolici italiani usano argomenti razionali e laicissimi, affidati a un giurista tutt’altro che estremista. Dalle parole di Bachelet trapela la convinzione che i giochi siano ormai fatti e la legge goda di una maggioranza sicura: «La scelta dell’indissolubilità o del divorzio è una scelta che inciderà largamente sulla nuova società che nasce, non solo perché condizionerà positivamente o negativamente l’esistenza di famiglie stabili e perciò stesso la solidità della compagine sociale, ma perché contribuirà a diffondere o a cancellare una concezione della vita che per fondare la comunità considera indispensabile una dedizione capace anche di sacrificio».

Qualcosa accade però pochi giorni dopo. Il 2 ottobre Avvenire dà una notizia che fa sobbalzare: al Senato, la proposta Dc di bloccare la legge viene sconfitta per la miseria di due voti, 155 no e 153 sì. Voto segreto. Il fronte divorzista non è poi così solido, almeno nei convincimenti personali dei senatori. Ma quando si passerà al voto palese... L’8 novembre la sconfitta degli antidivorzisti appare certa: «Il dibattito alla Camera non ci sarà – si legge in un commento non firmato – o sarà solo formale». Amara conclusione: «In tutto l’iter di questa legge è apparso, con evidenza, che il laicismo può essere ancora un cemento che unisce forze politiche per natura e fini molto eterogenee tra loro».

Ed eccolo il laicismo in azione. Varie sigle anticlericali, dai radicali ai giovani repubblicani, dalla lega per il divorzio alla sinistra liberale, denunciano i 336 vescovi della Cei per «infedeltà alle istituzioni dello Stato e aver svolto attività politica instigando i cittadini (sic, ndr) al disprezzo delle istituzioni e delle leggi». I vescovi, con toni assi più miti, replicano: nessuna «guerra di religione, ma democratico confronto di idee». Invitano a una più intensa pastorale familiare ma avvertono: pur rispettando «la distinzione tra le due sfere di competenza, temporale e spirituale, ritengono loro obbligo dare un giudizio su questioni che toccano valori morali fondamentali». Insomma non staranno zitti.

E Paolo VI? In Australia è stato informato dell’esito scontato del voto. Invia un messaggio alla Sala stampa vaticana in cui esprime «profondo dolore, e ciò per un duplice motivo: per il danno gravissimo che il divorzio reca alla famiglia italiana e specialmente ai figli; e poi perché la Santa Sede stima la presente legge lesiva del Concordato». Avvenire registra, limitando i commenti al minimo, con sobrietà estrema. Però annuncia (2 dicembre): «Referendum popolare per il divorzio». Pubblica l’appello di 25 personalità, cattoliche e laiche, tra cui il "sindaco santo" La Pira e la socialista Lina Merlin, il filosofo Augusto del Noce e lo scienziato Enrico Medi: votare ricorrendo allo strumento democratico del referendum, prima che in Italia si affermi la «mentalità divorzista». Che si affermerà in fretta; o forse si era già affermata. Perché l’esito del referendum del 12 maggio 1974 lo conosciamo bene.

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