19 ottobre 2019 - 21:51

Quanto guadagna un prete? Mini salario, poche offerte: vita da sacerdote

I sacerdoti hanno dalla Chiesa in media 1.100 euro con cui si pagano vestiti, benzina e incombenze varie. «Devi stare attento per arrivare alla fine del mese, ma una vita sobria testimonia l’attaccamento al Vangelo». Ecco i loro racconti

di Gian Guido Vecchi

Quanto guadagna un prete? Mini salario, poche offerte: vita da sacerdote Illustrazione di Ahmed Malis
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La marmitta dell’auto, per dire. Meno male che sono figlio unico». E che c’entra, scusi? «C’entra perché mi si era rotta, milleduecento euro. E per fortuna, a 47 anni, ci sono ancora mamma e papà che mi aiutano, nel caso so di potere contare su di loro». Don Dino Pirri, parroco marchigiano a Grottammare, si fa una risata, in fondo ci sono cose peggiori che restare appiedati. Però, mentre infuriano i (ricorrenti) scandali finanziari vaticani, pure una marmitta può far capire che un prete, come buona parte dei parrocchiani, di norma non naviga nell’oro. Talvolta la percezione è diversa, «magari la gente pensa che siamo pagati dal Vaticano e se vado a comprare un paramento con i miei soldi c’è chi si stupisce, ma non ve lo passano? Ma noi non viviamo fuori dal mondo, siamo persone normali». Il che, peraltro, è un bene: «Talvolta devi stare attento per arrivare alla fine del mese, magari devi rinviare una visita medica, ma lo stesso accade a tanti parrocchiani e questo ci avvicina. Del resto io prendo sui 1.100 euro al mese, ci sono famiglie che ci vivono, e se faccio un’opera di carità o offro una pizza ai ragazzi in parrocchia pago con i miei soldi. Le persone “sgamano” subito se un prete è attaccato ai soldi o fa la cresta».

Una vita normale. Nell’ultimo consiglio della Cei, il 26 settembre, la «remunerazione» dei sacerdoti è stata aumentata per la prima volta dopo dieci anni, e di appena 20 euro al mese. Per scelta dei vescovi, dal 2009 era rimasta bloccata, senza adeguamenti all’inflazione, come «segno di partecipazione» alla crisi. Il sistema nato con la legge 222 del 1985 prevede che ogni prete abbia un certo numero di «punti», secondo gli incarichi e l’anzianità, con un minimo di 80. Ora si è deciso che l’anno prossimo il «punto» passerà dai 12,36 di dieci anni fa a 12,61 euro: lo stipendio minimo salirà da 988,80 a 1.008,80 euro lordi al mese per dodici mesi, non c’è tredicesima. In media, un parroco arriva a prendere tra i 1.200 e i 1.300 euro e un vescovo tra i 1.500 e i 1.600. Se ha già uno stipendio, ad esempio come insegnante, la remunerazione si limita a colmare la differenza.

Gli oltre 31 mila preti nel sistema dell’Istituto per il sostentamento del clero vengono sostenuti dalle offerte e per buona parte dai fondi dell’otto per mille. I soldi risparmiati con il blocco delle retribuzioni, milioni di euro, sono serviti alla Cei per aumentare gli stanziamenti in opere di carità: dai 205 milioni del 2009 ai 275 milioni del 2017, ultimo dato disponibile, mentre le spese per il clero scendevano da 381 a 350 milioni. E questo in un momento storico nel quale le offerte dei fedeli per i sacerdoti crollano: dai 17 milioni e 470 mila euro del 2005 ai 9 milioni e 609 euro del 2017. C’entra la crisi economica e un mondo sempre più secolarizzato, chiaro, ma c’entrano soprattutto gli scandali nella Chiesa, dagli abusi sessuali su minori alle finanze.

«La gente, giustamente, non ci fa più sconti», considera don Ivan Maffeis, sottosegretario e portavoce della Cei: «Il calo delle offerte è un segno di disaffezione e mancanza di fiducia. Ma quello che non dovrebbe permetterci di dormire è che con i nostri scandali noi sconcertiamo e allontaniamo le persone dall’appartenenza ecclesiale. Papa Francesco dice che i pastori devono avere l’“odore delle pecore”. Le pecore non ti lasciano, sono loro che ti tengono in piedi e tengono in piedi anche la tua fede». Qui sta l’essenziale: «La Chiesa italiana è radicata nel territorio, tanti parroci servono con semplicità e umiltà. A un prete non manca nulla, anche se non ha un grande stipendio, perché la gente gli vuole bene. La gente è disposta a perdonare tante cose, ma quello che non ci perdona è l’attaccamento ai soldi. È una vita sobria che oggi testimonia la tua fedeltà al Vangelo».

Monsignor Paolo Lojudice, 55 anni, da quattro mesi arcivescovo di Siena, è stato vescovo ausiliare di Roma e prima ancora, per otto anni, parroco a Tor Bella Monaca, periferia estrema della Capitale: «Devi vivere come vive la tua gente, per esserle vicino. Non è questione di pauperismo, a me non è mai mancato nulla e intere famiglie ci campano, con ottocento o mille euro al mese. Ci sono le spese normali, la benzina, il bollo, qualche capo di vestiario: due o tre bastano, cambi abito solo se si usura. Poi, certo, dipende dalle situazioni».

L’essenziale, riflette Lojudice, è la condivisione. «A Tor Bella Monaca mi ritrovai un complesso monumentale, ai tempi l’avevano costruito così, solo la sala della canonica era 120 metri quadrati. Avevo la tentazione di andare a vivere nel prefabbricato, poi capimmo che l’unico modo di avere diritto allo spazio era condividerlo: aprire un centro diurno per i bambini, un ambulatorio medico per i poveri...». Stesso problema da arcivescovo di Siena: «Io che vivo in un palazzo del Seicento, nell’arcivescovado, mi sono chiesto: è giusto che resti qui? Mi sono ritagliato due stanzette, una è la camera da letto e l’altra lo studio con una scrivania e i libri. Per il resto, si tratterà di farne un uso intelligente, aprirlo. Sto pensando ad un pranzo per i poveri nella giornata mondiale del 17 novembre, a momenti di incontro, cercheremo di capire come sfruttare ogni spazio...

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