Fatima.
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Clara, non pregare per me! Sono dannata! Testimonianza scioccante (terza parte)

L’ultimo rifiuto
Con la dichiarazione che la religione è affare di sentimento, come si diceva sempre in ufficio, cestinai anche questo invito della grazia come tutti gli altri. Una volta tu mi rimproverasti perché invece di una genuflessione fino a terra, feci appena un informe inchino, piegando il ginocchio. Tu lo ritenesti un atto di pigrizia. Non sembrasti neppur sospettare che io fin d’allora non credevo più nella presenza di Cristo nel SS.mo Sacramento.
Ora ci credo, ma solo naturalmente, come si crede in un temporale di cui si scorgono gli effetti. Intanto mi ero costruita io stessa una religione a modo mio. Sostenevo l’opinione, che da noi in ufficio era comune, che l’anima dopo la morte risorga in un altro essere. In tal modo continuerebbe a pellegrinare senza fine. Con ciò, l’angosciosa questione dell’al di là era insieme messa a posto e resa a me innocua. Perché tu non mi hai ricordato la parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro, in cui il narratore, Cristo, manda, immediatamente dopo la morte, l’uno all’inferno e l’altro in paradiso?…
Del resto, che cosa avresti ottenuto? Nulla di più che con gli altri tuoi discorsi di bigottismo! A poco a poco, mi creai io stessa un dio; sufficientemente dotato da essere chiamato «dio»; lontano abbastanza da me, da non dover mantenere nessuna relazione con Lui; vago abbastanza da lasciarsi, secondo il bisogno, senza mutare la mia religione, paragonare a un dio panteistico del mondo, oppure da lasciarsi poetizzare come un dio solitario.
Questo dio non aveva nessun inferno da infliggermi. Lo lasciavo in pace. In ciò consisteva la mia adorazione per Lui. Ciò che piace si crede volentieri. Nel corso degli anni mi tenni abbastanza convinta della mia religione. In questo modo si poteva vivere. Una cosa soltanto mi avrebbe spezzato la cervice: un lungo, profondo dolore. E questo dolore non venne! Comprendi ora cosa vuol dire: «Dio castiga quelli che ama»! Era una domenica di luglio, quando l’Associazione delle Giovani organizzò una gita a (***). La gita mi sarebbe piaciuta. Ma questi insulsi discorsi, quel fare da bigotti!
Un altro simulacro ben diverso da quello della Madonna di (***) stava da poco tempo sull’altare del mio cuore. L’aitante Max (***) del negozio attiguo. Poco tempo prima, avevamo scherzato assieme più volte. Appunto per quella domenica egli mi aveva invitata ad una gita. Quella con cui andava di solito, giaceva malata all’ospedale. Egli aveva ben capito che gli avevo messo gli occhi addosso. Sposarlo non ci pensavo allora.
Era bensì agiato, ma si comportava troppo gentilmente con tutte le ragazze. E io, fino a quel tempo, volevo un uomo che appartenesse unicamente a me. Non solo essere moglie, ma moglie unica. Un certo galateo naturale, infatti, l’ebbi sempre. Nella suaccennata gita, Max si profuse in gentilezze. Eh! già, non si tennero mica delle conversazioni pretesche come tra voialtre!
Dio «pesa» con precisione
Il giorno seguente, in ufficio, tu mi facesti dei rimproveri, perché non ero venuta con voi a (***). lo ti descrissi il mio divertimento di quella domenica. La tua prima domanda fu: «Sei stata alla Messa»? Sciocchina! Come potevo, dato che la partenza era già fissata per le sei? Sai ancora come io, eccitata, aggiunsi: «Il buon Dio non ha una mentalità così piccina come i vostri pretacci»! Ora devo confessare: Dio, nonostante la Sua infinita bontà, pesa le cose con maggior precisione che tutti i preti.
Dopo quella giornata con Max, venni ancora una volta nell’Associazione delle Giovani: a Natale, per la celebrazione della festa. C’era qualche cosa che mi allettava a tornare. Ma internamente mi ero già allontanata da voialtre. Cinema, ballo, gite si avvicendavano senza tregua. Max e io bisticciammo alcune volte, ma seppi incatenarlo di nuovo a me. Molestissima mi riuscì l’altra amante, che tornata dall’ospedale si comportò come un’ossessa. Veramente per mia fortuna: poiché la mia nobile calma fece potente impressione su Max, che finì col decidere che io fossi la preferita.
Avevo saputo rendergliela odiosa, parlando freddamente: all’esterno positiva, nell’interno vomitando veleno. Tali sentimenti e tale contegno preparano eccellentemente per l’inferno. Sono diabolici nel più stretto senso della parola. Perché ti racconto queste cose? Per riferire come io mi staccai definitivamente da Dio. Non già del resto, che tra me e Max si fosse arrivati molto spesso fino agli estremi della familiarità. Comprendevo che mi sarei abbassata ai suoi occhi, se mi fossi lasciata andare del tutto, prima del tempo; perciò, mi seppi trattenere.
Ma in sé, ogni volta che lo ritenevo utile, ero sempre pronta a tutto. Dovevo conquistare Max. A tale scopo, nulla era troppo caro. Inoltre, a poco a poco, ci amavamo possedendo ambedue non poche preziose qualità, che ci facevano stimare vicendevolmente. lo ero abile, capace, di piacevole compagnia. Così mi tenni saldamente in mano Max e riuscii, almeno negli ultimi mesi prima del matrimonio, a essere l’unica a possederlo.
Mi ritenevo cattolica…
In ciò consistette la mia apostasia da Dio: elevare una creatura a mio idolo. In nessuna cosa può avvenire questo, in modo che abbracci tutto, come nell’amore di una persona dell’altro sesso, quando quest’amore rimane arenato nelle soddisfazioni terrene. È questo che forma la sua attrattiva, il suo stimolo e il suo veleno. L’«adorazione» che io tributavo a me stessa nella persona di Max divenne per me religione vissuta. Era il tempo in cui in ufficio mi scagliavo velenosa contro i chiesaioli, i preti, le indulgenze, il biascichio dei rosari e simili sciocchezze.
Tu hai cercato, più o meno argutamente, di prendere le difese di tali cose. Apparentemente, senza sospettare che nel più intimo di me non si trattava, in verità, di queste cose; io cercavo piuttosto un sostegno contro la mia coscienza. Allora avevo bisogno di un tale sostegno per giustificare anche con la ragione la mia apostasia. In fondo in fondo, mi rivoltavo contro Dio. Tu non lo comprendesti; mi ritenevo ancora cattolica. Volevo anzi essere chiamata così; pagavo perfino le tasse ecclesiastiche. Una certa «contro-assicurazione», pensavo, non poteva nuocere. Le tue risposte può darsi alle volte abbiano colpito nel segno. Su di me non facevano presa, perché tu non dovevi avere ragione.
A causa di queste relazioni falsate fra noi due, fu meschino il dolore del nostro distacco, allorché ci separammo in occasione del mio matrimonio. Prima dello sposalizio mi confessai e mi comunicai ancora una volta. Era prescritto. lo e mio marito su questo punto la pensavamo ugualmente. Perché non avremmo dovuto compiere questa formalità? Anche noi la compimmo come le altre formalità. Voi chiamate indegna una tale Comunione. Ebbene, dopo quella Comunione «indegna», io ebbi più calma nella coscienza. Del resto fu anche l’ultima. La nostra vita coniugale trascorreva, in genere, quanto mai in grande armonia. Su tutti i punti di vista noi eravamo dello stesso parere. Anche in questo: che non volevamo addossarci il peso dei figli. Veramente mio marito ne avrebbe volentieri voluto uno; non di più, si capisce. Alla fine io seppi distoglierlo anche da questo desiderio.
Vestiti, mobili di lusso, ritrovi da tè, gite e viaggi in auto e simili distrazioni mi importavano di più. Fu un anno di piacere sulla Terra quello trascorso tra il mio matrimonio e la mia repentina morte. Ogni domenica andavamo fuori in auto, oppure facevamo visite ai parenti di mio marito. Essi galleggiavano alla superficie dell’esistenza, né più né meno di noi. Internamente, si capisce, non mi sentii mai felice, per quanto esternamente ridessi.
C’era sempre dentro di me qualche cosa d’indeterminato, che mi rodeva. Avrei voluto che dopo la morte, la quale naturalmente doveva essere ancora molto lontana, tutto fosse finito. Ma è proprio così, come un giorno, da bambina, sentii dire in una predica: che Dio premia ogni opera buona che uno compie e, quando non la potrà ricompensare nell’altra vita, lo farà sulla Terra. Inaspettatamente, ebbi un’eredità dalla zia Lotte. A mio marito riuscì felicemente di portare il suo stipendio a una cifra notevole. Così potei sistemare la nuova abitazione in modo attraente.
La religione non mandava più che da lontano la sua voce, scialba, debole ed incerta. I caffè della città, gli alberghi, in cui andavamo durante i viaggi, non ci portavano certamente a Dio. Tutti coloro che frequentavano quei luoghi, vivevano, come noi, dall’esterno all’interno, non dall’interno all’esterno. Se nei viaggi delle ferie visitavamo qualche chiesa, cercavamo di ricrearci nel contenuto artistico delle opere.
L’alito religioso che spiravano, specialmente quelle medioevali, sapevo neutralizzarlo col criticare qualche circostanza accessoria: un frate converso impacciato o vestito in modo non pulito, che ci faceva da cicerone; lo scandalo che dei monaci, i quali volevano passare per pii, vendessero liquori; l’eterno scampanio per le sacre funzioni, mentre non si tratta che di far soldi…