Le tentazioni di Cristo rivelate alla mistica Maria d’Agreda

Nel capitolo ventesimo di questo libro si dichiarò che il tentatore uscì dalle profonde caverne per trovare il nostro divino Maestro, il quale però gli si nascose fino a quando non andò nel deserto dove, dopo un digiuno di quasi quaranta giorni, permise che gli si accostasse, come afferma il Vangelo. Lucifero si rallegrò molto nel constatare che colui che cercava era solo, poiché Maria, che egli e i suoi ministri di tenebre consideravano nemica per le vittorie che riportava su di loro, non era presente. Dato che non era ancora iniziata la battaglia, la loro superbia presumeva che, in assenza della Madre beatissima, fosse sicuro il trionfo sul Figlio; tuttavia, avvicinandosi per conoscere meglio il combattente, si sentirono tutti timorosi e codardi, ma non perché capissero che era Dio vero, poiché di questo non avevano neppure il sospetto osservandolo così disprezzato, né per aver confrontato con lui le loro forze, che avevano messo alla prova soltanto contro la celeste Signora. Fu, piuttosto, lo scorgerlo assolutamente tranquillo, con un aspetto tanto pieno di maestà e con opere tanto alte ed eroiche, che li spaventò e scoraggiò; tali azioni e qualità, infatti, non erano come quelle degli altri, che essi seducevano e vincevano facilmente. Il dragone, parlando di questo con i suoi, disse loro: «Chi è mai costui, così austero e libero dai vizi dei quali ci serviamo solitamente? Se è così indifferente al mondo e conserva così soggetta e indebolita la sua carne, da dove entreremo noi per tentarlo? O come speriamo di sopraffarlo, se ci ha tolto le armi che usiamo per muovere guerra? Diffido molto di questo scontro». Tanto vale e tanto può il disprezzo delle cose terrene e la mortificazione da fare paura al diavolo ed a tutto l'inferno; la sua tracotanza non si innalzerebbe sino a questo punto, se non trovasse le persone sottomesse a lui ancor prima di circuirle.

Il Salvatore lasciò satana nell'inganno di crederlo una semplice creatura, sebbene assai giusta e retta, affinché dispiegasse tutto il suo vigore e la sua malizia per la contesa, come fa quando ravvisa in quelli che vuole irretire tali perfezioni ed eccellenze. Così questi, facendo ogni sforzo con la sua consueta arroganza e con tutta la sua abilità, incominciò il duello di cui né prima si vide né poi si vedrà altro simile sulla terra tra mortali e demoni. Egli e i suoi associati dimostrarono pienamente la propria energia e astuzia, aizzati dal loro stesso sdegno e furore contro la superiorità del Signore, che pure mitigava i suoi atti, la sua sapienza e la sua bontà infinita, e con equità e misura celava la causa originaria del suo immenso potere, manifestandone solo quanto bastava per ottenere il successo sugli avversari con la santità di uomo. Per lottare come tale pregò il Padre nella parte più elevata dello spirito, dove non arriva la conoscenza dell'infelice tiranno: «Dio mio, affronto il mio rivale per abbattere la sua furia e il suo orgoglio contro di voi e contro le anime che amo; per vostra gloria e loro bene voglio abbassarmi a sopportare l'audacia di questo serpente e schiacciare il suo capo, cioè la sua alterigia, affinché i cristiani lo trovino già vinto quando saranno attaccati da lui, se per propria colpa non gli si abbandoneranno. Vi supplico di ricordarvi del mio trionfo quando verranno tormentati da lui e di ritemprarne la fiacchezza, perché grazie ad esso conseguano il loro, si rinfranchino con il mio esempio e imparino come resistergli e sconfiggerlo».

I custodi celesti stavano a contemplare questa battaglia, ma nascosti per disposizione dell'Altissimo, affinché il maligno non si accorgesse di loro, né scoprisse qualcosa della potenza divina di Cristo; davano tutti gloria e lode al Padre ed allo Spirito Santo, i quali si compiacevano delle sue ammirabili azioni. Pure la Regina guardava quanto stava avvenendo dal suo luogo di orazione. La tentazione ebbe inizio il trentacinquesimo giorno del digiuno e della solitudine di Gesù e durò sino al termine dei quaranta giorni scritti nel Vangelo. Il drago gli si presentò in forma umana, come sé non fosse già stato riconosciuto da lui, e per raggiungere il suo scopo assunse un'apparenza risplendente come angelo di luce; pensando che dopo un tempo tanto lungo avesse fame, gli si rivolse così: «Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane». Gli chiese ciò perché era quello di cui aveva maggior timore e desiderava avere qualche indizio al riguardo. Il Redentore, però, ribatté soltanto: «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», riprendendo il capitolo ottavo del Deuteronomio. L'altro non penetrò il senso in cui esso era stato citato, ma capì che anche senza alimento corporale sua Maestà poteva sostenere l'esistenza terrena. Sebbene ciò fosse vero, dal momento che si esprimeva pure questo, il significato dato a tale espressione era più ampio, perché era come dirgli: «Colui con il quale tu parli vive nella Parola di Dio, che è il Verbo eterno, a cui è ipostaticamente unito»; benché costui bramasse sapere proprio questo, non meritò d'intenderlo, perché non accettò di adorarlo.

Satana si sentì bloccato dal vigore di tale risposta e dalla virtù occulta che conteneva, ma non volle far trasparire debolezza né arrendersi. Il Signore gli concesse di persistere e di condurlo a Gerusalemme, dove fu posto sopra il pinnacolo del tempio, da cui poteva osservare un ampio numero di persone senza essere scorto da alcuno. Qui il nemico, stimolando la sua immaginazione, affermò che, se lo avessero visto cadere da un luogo tanto alto senza riportare alcuna lesione, lo avrebbero acclamato grande, santo e operatore di prodigi; nel farlo si avvalse ancora del testo sacro ed esclamò: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede». Gli spiriti del cielo accompagnavano il loro Re per assistere a tale impresa, solo in vista del vantaggio che ne sarebbe risultato all'umanità, meravigliati che avesse accondisceso a lasciarsi trasportare fisicamente da Lucifero, con il quale erano presenti moltissimi demoni, tanto che l'inferno era restato quasi spopolato. L'Autore della sapienza replicò: «Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo». In tal modo il Salvatore si mostrava incomparabilmente mansueto, profondamente umile e tanto superiore al principe delle tenebre nella maestà e nella fermezza che questi, per tale nobiltà e completa imperturbabilità, si alterò ancor più nella sua indomita superbia, con nuovo tormento e affanno.

Il diavolo provò un altro stratagemma per attaccarlo, cioè quello dell'ambizione, offrendogli parte del proprio dominio; perciò lo fece ascendere su un monte elevato dal quale si distinguevano parecchie terre e, con perfidia e sfacciataggine, gli disse: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Esorbitante arroganza, più che assurda menzogna e ingannevole perfidia! Assicurava, infatti, ciò che non aveva né poteva cedere, giacché il mondo, i regni, i principati, le ricchezze e i tesori, tutto è del Signore, che li dona e li toglie a chi vuole e quando gli piace e lo crede opportuno. Costui non può mai regalare qualche bene che sia suo, anche di quelli temporali, per cui tutte le sue promesse sono false. Gli fu risposto con autorità incontrastabile: «Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto». Nell'intimargli di andarsene, Cristo gli tolse la facoltà di tentarlo e, con onnipotente comando, fece precipitare lui e tutte le sue legioni nelle più remote caverne sotterranee, dove per tre giorni sostarono fissi e inchiodati senza riuscire a muoversi. Avuta poi licenza di rialzarsi, trovandosi così distrutti e inerti, incominciarono a sospettare che chi li aveva abbattuti fosse effettivamente il Figlio di Dio fatto carne, e rimasero in tale dubbio senza arrivare mai ad averne la certezza sino a quando egli spirò. Il serpente, intanto, si disperava per il danno che aveva subito in questa battaglia e si consumava nel suo furore.

Il nostro beato vincitore glorificò l'eterno Padre e lo magnificò con lodi e rendimenti di grazie perché gli aveva concesso di prevalere sul comune nemico dei mortali. Fu ricondotto nel deserto da una gran moltitudine di angeli che allora, cantandogli armoniosi inni per il suo trionfo, lo tennero proprio sulle loro mani, benché non ne avesse bisogno in quanto avrebbe avuto la possibilità di far uso del suo potere. Quel rispetto gli era dovuto in contraccambio della sfrontatezza con cui il drago aveva osato far salire sul pinnacolo del tempio e sull'altura la sua umanità santissima, nella quale stava sostanzialmente e realmente la divinità. Non si sarebbe mai potuto pensare che Gesù gli avesse dato tale permesso, se ciò non venisse detto nel Vangelo. Non so, però, quello che per noi è causa di maggior stupore, se l'avere acconsentito ad essere portato in diversi luoghi da lui, che non lo conosceva, o ad essere tradito da Giuda e ricevuto nel sacramento da quel discepolo maligno e da tanti credenti che, nonostante lo confessino Dio e Signore, si accostano all'eucaristia tanto indegnamente. Ciò che di sicuro deve lasciarci sbalorditi è che egli abbia tollerato tali offese e continui a sopportare quest'ultima per noi, per vincolarci e trarci a sé con la mitezza e con la pazienza della sua carità.

O dolcissimo Redentore mio, quanto siete soave, benigno e clemente verso le anime! Per loro scendeste dal cielo, patiste e deste la vita per salvarle. Con misericordia le aspettate e le sostenete, le chiamate, le cercate, le accogliete, vi introducete nel loro intimo, siete tutto per esse e volete che ciascuna sia tutta per voi. Quello che mi trafigge e spezza il cuore è che, mentre il vostro vero amore ci attira, noi fuggiamo da voi e corrispondiamo con ingratitudini a simile tenerezza. Oh, amore immenso, tanto malamente accettato e ripagato! Date lacrime ai miei occhi per piangere una cosa così meritevole di essere biasimata e in ciò mi aiutino tutti i giusti.

La Scrittura afferma che, dopo aver riaccompagnato Cristo in quel luogo arido, i custodi iniziarono a servirlo; infatti, alla fine di queste prove e dell'astinenza dal cibo, gliene presentarono uno divino affinché ne mangiasse, e con questo il suo sacro corpo recuperò le forze naturali. A tale pasto non assistettero solo essi, che si congratularono per la vittoria, ma anche gli uccelli della zona, accorsi a ricreare i sensi del loro Artefice fatto uomo con armonie e voli molto graziosi e accordati. A modo loro fecero lo stesso le belve della montagna, spogliandosi della propria ferocia, con gradevoli bràmiti e movimenti per colui che attestavano loro sovrano.

Venerabile Maria d'Agreda

Tratto da:

La Mistica Città di Dio, libro 5, capitolo 26, paragrafi 995-1000 (medjugorje.altervista.org/…/index.php)
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Le Tentazioni