Ci sono i pittori della notte, come Rembrandt o George de la Tour; ma ci sono pochissimi pittori dell’alba: perché l’alba è l’ora della morte, l’ora della luce glauca. C’è Géricault, ma soprattutto c’è Caravaggio».
Nel film (ormai divenuto un cult) Il declino dell’impero americano, del franco-canadese Denys Arcand, uno dei protagonisti, un professore di storia dell’arte, pronuncia queste parole nel corso di una lezione, mentre alle sue spalle scorrono e quasi si confondono con lui le immagini di due capolavori caravaggeschi, il Martirio di San Matteo della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi e il Narciso della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini.



Non è quindi un caso che un chiarore ambiguo rischiari il più famoso dipinto seicentesco sull’epidemiae cioè La Peste di Azoth di Nicolas Poussin ora al Louvre.

Si parlava prima di “dualità seicentesca” e se i temi della nascita e della morte erano così intrecciatinella cultura del XVII secolo ciò era dovuto anche ad un dato storico oggettivo e cioè al fatto che proprio il parto era ancora, in quell’epoca, un momento estremamente rischioso per la vita delle donne, così come era ancora altissima l’incidenza della mortalità neonatale. Dunque questa duplicità primaria dell’inizio e della fine, del venire al mondo e del lasciarlo era presente alle coscienze e, per dirla in termini moderni, all’inconscio collettivo di un’intera epoca in un modo ancora più pressante e coinvolgente di quanto oggi non si possa pensare. Ma d’altra parte è anche vero che razionalismo ed indagine naturalistica, verifica sperimentale e apertura verso il nuovo cominciano a farsi strada nella cultura seicentesca, così come è vero che si assumono momenti di maggiore fiducia nelle capacità dell’uomo di regolare le forze negative delle malattie e delle calamità naturali.
Eppure, di fronte a fenomeni apocalittici come il flagello delle pestilenze l’irrazionalità e la fede nei miracoli come ultima ancora di salvezza prendono ancora il sopravvento: e i pittori riflettono questa dualità rappresentando sia scene drammatiche e realistiche di appestati coperti di piaghe e bubboni, spesso immersi in paesaggi notturni che lasciano trapelare una visione cupa e misteriosa delle inafferrabili particelle che si corrompono nell’atmosfera miasmatica, sia i Santi guaritori che con la loro intercessione miracolosa fanno per incanto cessare le epidemie: ci riferiamo in particolare a San Sebastiano, San Rocco e San Carlo Borromeo e per quanto riguarda Roma l’arcangelo Michele. Nei riguardi del primo va sottolineato come le sue ferite raffigurate nei dipinti siano una metafora della peste, mentre le piaghe di San Rocco sono reali; San Sebastiano ha dunque, soprattutto, la funzione di scongiurare l’epidemia prima che avvenga, San Rocco ha invece il compito di guarire chi ne è già stato colpito.

Come è noto, in Europa dal XIV al XVII secolo le epidemie di peste erano un fenomeno endemico e ricorrente ma che ebbero nel 1630/31 e 1656/57 dei picchi di particolare virulenza; a Roma però, allora come (si spera) oggi con il Corona virus la situazione si mantenne sotto controllo e specie nel secondo periodo si può notare come rispetto ad esempio a Napoli dove si ebbero 150000 mila morti in città e ben 900.000 nell’intero stato napoletano, o Genova che vide perire tra i 50000 e i 60000 abitanti, cioè circa il 60% della popolazione, nell’Urbe i morti furono non più di 9500 e cioè l’8% dei residenti nella città.

Quanto agli “untori” in tutte le grandi epidemie a partire dalla sifilide fino al Coronavirus si è sempre cercato di darne la colpa, almeno inizialmente, ai “diversi”. Nel caso della lue era il damerino vizioso irrimediabilmente marcato dal segno dello Scorpione, ma anche la prostituta, il diseredato, lo straniero, come attesta la definizione che varia da Paese a Paese: mal franzese, mal de Naples, französenkrankheit; per l’AIDS ancora la prostituta, ma ancor di più l’omossessuale e drogato, meglio se negro, e in definitiva tutti coloro che praticano atti sessuali “contro natura”; per la peste, l’emarginato, l’eretico, l’ebreo e soprattutto le “streghe”, con veri e propri massacri perpetrati in tutta Europa ai danni di povere donne indifese; per il Corona virus tutti ricorderanno che la colpa è stata attribuita (anche da persone sedicenti colte o addirittura occupanti ruoli istituzionali) ai cinesi che mangiano topi e pipistrelli crudi, con episodi, per fortuna marginali e presto cessati, di “caccia al giallo”. Ma è anche accaduta una cosa deprecabile e cioè che da parte di certa stampa maldestra (ma anche qui col concorso di testate pubbliche nazionali) per un malinteso senso di sintesi si è cominciato a definire “untori” proprio i medici e gli infermieri che più rischiano la loro salute in questa emergenza, magari con la chiosa (toppa peggiore del buco) “loro malgrado”.
Prima però di entrare nello specifico delle opere d’arte del Seicento di cui mi occuperò tra breve, voglio aprire una breve parentesi per parlare del pittore che secondo me, insieme al Caravaggio, meglio incarna il mistero della luce glauca, cioè Jacopo Pontormo, il quale del resto dovette anche lui sfuggire ad una pestilenza che aveva colpito Firenze nel 1522-23 e ripararsi presso la Certosa del Galluzzo dove produsse dei meravigliosi affreschi oggi quasi illeggibili. Come scrive Giorgio Vasari
«Ebbe il Puntormo bellissimi tratti e fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l’avere a incontrare i morti. Non andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu ogni oltre tendenza solitario».
D’altro canto, per chi aveva perduto, in drammatica sequenza, la madre all’età di sei anni, il padre a quella di undici, il nonno e la nonna cui era stato affidato da orfano rispettivamente a tredici e quindici e infine la sorella, unica superstite della famiglia a diciotto, non ci si poteva certo aspettare un sereno atteggiamento nei confronti della vita. Forse messer Giorgio esagera un po’ quando afferma che l’abitazione che ad un certo punto il Pontormo s’era fatto costruire aveva
«più tosto la cera di casamento da uomo fantastico e soletario che di ben considerata abitura: conciò sia che alla stanza dove stava a dormire e tal volta a lavorare si saliva per una scala di legno, la quale entrato che egli era, tirava su con una carrucola, a ciò nessuno potesse salire da lui senza sua voglia o saputa».
Ma che egli dica sostanzialmente il vero ce lo conferma lo stesso diario del pittore, il famoso Libro mio, dove Jacopo annotava con maniacale meticolosità quello che mangiava, quello che defecava e quello che disegnava o dipingeva e per di più tutto di seguito e mettendoli assolutamente sullo stesso piano. Ecco ad esempio quanto annota nel luglio del 1555:
«giovedì mattina cacai dua stronzoli non liquidi e drento n’usciva che se fusino lucignoli di bambagia, cioè grasso bianco; e asai bene cenai in San Lorenzo un poco di lesso assai buono e fini’ la figura»;
mentre nel marzo dell’anno seguente scrive
«domenica fu pichiato da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino – e la domenica seguente – Bronzino mi voleva a desinare, e turbandosi mi disse: – e pare che voi vegnate a casa uno vostro nimico – e mi lasciò ire»,
tutte frasi che confermano di fatto le affermazioni vasariane circa l’ipocondria del nostro pittore.

In realtà, il titolo più adatto per il nostro dipinto è quello di Trasporto verso il sepolcro, e non Deposizione, come sostiene ancora buona parte della storiografia. Spostandoci al campo formale, quell’apparentemente casuale groviglio di corpi ha un preciso rigore compositivo in cui domina lo schema della piramide o addirittura del rombo, con al vertice alto la figura della Vergine incinta, ai lati quelle di Giovanni Evangelista e Giuseppe d’Arimatea ed in basso il giovane inginocchiato, forse Nicodemo, come lascerebbe intendere il panno verde srotolato ai suoi piedi e destinato anch’esso ad avvolgere il corpo di Cristo: doppia piramide, dunque, doppia valenza di morte e resurrezione.
Perno ideale dell’intera scena è Maria, “Mater dolorosa”, giovane quanto se non più del figlio, come nella michelangiolesca Pietà di S. Pietro: Maria che prevede il futuro martirio più che viverlo ed è come se si sdoppiasse: in alto, ai vertici della Pala, nella figura della giovane incinta, malinconica più che dolente (dai sublimi toni dell’azzurro, del rosa e del pervinca) e che guarda proprio verso il Cristo, diafano e con le punte dei piedi livide come si addice appunto ad un morto; appena più in basso e sulla destra, nell’altra Maria, poco più anziana ma molto più


D’altra parte questo tema dell’autoritratto ad imitationem Christi, come ben sappiamo, non è esclusivo del Pontormo e tra i vari prototipi il più celebre è senz’altro l’autoritratto del Dürer ora al Prado, del 1498, che forse il Carucci può avere conosciuto attraverso qualche incisione. Ma soprattutto è da rammentare come l’amico e compagno di stranezze del Nostro, cioè il Rosso Fiorentino, si autorappresenti in un Cristo dalla barba e dai capelli rosso fiammeggianti come i propri in almeno quattro occasioni e in un arco di tempo che va dal 1521 al 1540: la Deposizione della Pinacoteca Civica di Volterra; il Cristo morto ora a Boston; la Deposizione in S. Lorenzo a San Sepolcro; e la Pietà ora al Louvre. Nella Pala Capponi Pontormo si raffigura dunque come Giuseppe d’Arimatea; come Cristo; ma anche come S. Giovanni.




Al confronto con questo trionfo della “rettorica” più pomposa il San Michele della Concezione rifulge nella semplicità della sua assoluta purezza come uno dei vertici della pittura reniana e di tutto il primo Seicento italiano. La scena è mutuata, come è noto, dell’analogo capolavoro di Raffaello ora al Louvre del 1518; ma vi è da dire che l’angelo quasi danzante, nei suoi splendidi toni di rosa e di azzurro e come pervaso da un afflato divino, il volto di sublime bellezza, le grandi ali dispiegate a fendere l’aria, reggono in pieno il confronto con il celebrato prototipo. Così come di rara potenza è il michelangiolesco nudo del demonio sconfitto e calpestato, con alle spalle un inserto quasi boschiano di fiamme emergenti tra livide rocce; e così lo stesso pittore così commentava il suo dipinto in una lettera a monsignor Massini citata dal Bellori:
«Vorrei avere avuto pennello angelico, o forme del Paradiso, per formare l’Arcangelo, o vederlo in Cielo, ma non ho potuto salir tant’alto, ed invano l’ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell’idea mi sono stabilita e dovetti dipingerlo secondo la mia fantasia. Il demone invece l’ho incontrato parecchie volte, l’ho guardato attentamente e ho fissato i suoi tratti proprio come li ho visti».

Lo stesso San Rocco (Napoli, Gallerie di Capodimonte) e San Sebastiano (Praga, Galleria del Castello) diventano in Carlo Saraceni due pellegrini colti in

San Carlo, con la sua inconfondibile immagine allampanata e dal grande naso adunco, reca in braccio un neonato appena sottratto da un cumulo di appestati e affidato ad un giovane pastore caratterizzato dalle due capre al fianco e che allude al Signore, Pastore per eccellenza; le capre erano del resto usate nei lazzaretti per l’allattamento agli orfani, come si evince dal trattatello De Pestilentia che Federico Borromeo scrisse nel 1630 e capre che allattano gli orfani si vedono anche nel San Carlo Borromeo che intercede per gli appestati di Marcantonio Franceschini in San Carlo a Modena e nel San Carlo Borromeo che battezza un bimbo appestato di Ludovico Carracci nell’abbazia di Nonantola e di un analogo dipinto del Cavedone nella Parrocchiale di Appiano Gentile (M. Gallo in Scienza e miracoli). Assai sapiente è comunque l’equilibrio che il Borgianni riesce a mantenere tra i toni drammatici delle scene di pestilenza e quelli fideistici e rassicuranti dell’intervento consolatorio del santo, con un trapasso cromatico graduale fino al rosso squillante della veste di Carlo, che incendia mirabilmente la parte centrale della scena.



Cambiando registro geografico voglio ancora citare altri due piccoli capolavori di Tanzio da Varallo (1575 ca.- 1632 ca.: il terso e nobilissimo San Carlo Borromeo comunica gli appestati(Domodossola, parrocchiale dei santi Gervasio e Protasio), quasi iperrealistico in certi bellissimi inserti naturalistici e il San Rocco intercede per gli abitanti di Cremasco (Varallo, Pinacoteca Civica), firmato 1631 ed in cui non possiamo che ammirare le splendide e nervosissime mani del santo pellegrino o ancora il cane con un tozzo di pane in bocca che guarda fiducioso verso il proprio padrone.



Niente abbellimenti o scorciatoie retoriche abbiamo invece nella Piazza del mercato di Napoli invasa dai cadaveri di Micco Spadaro, alias Domenico Gargiulo (Napoli 1612- 1675) ora al Museo di San Martino, da cui sembra esalare il fetore della decomposizione dei corpi ammassati alla rinfusa mentre il cielo si colora di un sinistro bagliore.


«Nel lussureggiante giardino incantato, bordato da una siepe, irrompe la Morte su uno spettrale cavallo scheletrito. Essa inizia a lanciare frecce letali che uccidono gli esponenti di tutte le fasce sociali. La prorompente vitalità dell’equus pallidus occupa il centro della scena e sembra quasi esibire le sue costole e la macabra anatomia della testa scarnificata mostrando, con una nota di sarcasmo, denti e lingua. La Morte, sebbene abbia sul fianco la falce suo attributo, ha appena scoccato una freccia, che è andata a colpire il collo di un giovane nell’angolo destro in basso».
Si tratta di una possente allegoria della peste che aveva devastato la Sicilia nel 1442 e che duecento anni dopo aveva ripreso a cavalcare feroce e misteriosa come nel bergmaniano Settimo sigillo.
Sergio ROSSI Roma 7 febbraio 2021